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Britpop, gli inizi

Immanuel Kant, filosofo tedesco, credeva ciecamente in un progresso infinito della storia umana. Il miglioramento, secondo le sue idee, sarebbe avvenuto attraverso passaggi tra epoche. Ogni passaggio sarebbe stato traumatico, bellicoso, e avrebbe causato lo stravolgimento, la cancellazione, degli usi, costumi e civiltà esistenti rimpiazzati da nuovi valori di cui la nuova classe dirigente sarebbe stata portatrice in pectore. Pur non potendo applicare completamente una simile teoria al corso della storia musicale, bisogna ammettere che, come Kant descriveva l’evoluzione del percorso storico, così, similarmente, la musica si evolve e cambia negando le tendenze proprie del periodo precedente, riaffermando, di contro, nuovi stili, nuove correnti, nuove poetiche. Il Regno Unito nella seconda metà degli anni ’80 è uno stato depresso. Il governo di Margaret Thatcher, il liberalismo estremo, la politica di privatizzazione incentivata statalmente, non hanno ancora portato i benefici che cominceranno, invece, ad essere apprezzati e notati nella seconda metà degli anni ’90. Le squadre inglesi di football sono state escluse dalle competizioni internazionali a causa dell’apparentemente insormontabile problema degli hooligans, sfociato nella tragedia di Hillsborough. La nazionale inglese arranca. La disoccupazione aumenta. Gli scioperi, il più famoso quello dei minatori di metà decade, tediano il paese. L’idolo delle folle è Paul Gascoigne, icona del perfetto inglese da pub. La musica, tradizionale valvola di sfogo di inverni bui e nebbiosi, attraversa un periodo di stanca. I Queen, idoli delle folle da due lustri, cominciano ad arrancare tra arrangiamenti pomposi, canzoni di maniera, malattie nascoste. L’ondata di canzoni spensierate e plastificate di Duran Duran, Spandau Ballet e simili dura il breve arco di un valzer, i grandi gruppi inglesi latitano. Simple Minds e Smiths sono calciatori il cui talento si esprime a sprazzi, venendo spesso annacquato in atteggiamenti ambigui e comportamenti da pappemolli. Gli Stati Uniti dominano: i nuovi R.E.M, Bruce Springsteen, il thrash rock hanno conquistato il mondo. Il Grunge è alle porte.

I giovani musicisti, per evadere, prendono due strade. I paradisi artificiali, le musiche sofisticate, fredde e sperimentali, che avranno il loro culmine nel movimento shoegazing di fine decade e la tendenza baggy, eroinomane e artificiale, della scena di Madchester, sperimentazione mista a elettronica estatica, in cui l’Hacienda, storico club mancuniano, la farà da padrone. A ciò, si aggiunge una specie di ricordo dei tempi in cui il rock britannico, il beat dei capelli a caschetto e degli stivaletti a punta, suonava in tutto il mondo. Ci si rivolge a tre generazioni precedenti, l’invasione britannica degli anni ’60, il glam rock dei primi ’70, il punk di dieci anni primi. Da questo frullatore impazzito nasce il Britpop. Il movimento, ancora poppante, già grida strilli ad inizio anni ’90, a Londra. La zona di Camden, tuttora famosa per il movimento Indie e i club a basso prezzo e ad alta alcolicità, s’infervora di nuove band, vogliose di rottura con il passato recente, e di recupero di sonorità anni ‘60, ritornelli semplice e acchiappattenzione, chitarre elettriche onnipresenti a discapito di tastiere, trombette, organi, synth. Damon Albarn, figlio di artisti hippie della Londra bene, ha già fondato, a fine anni ’80, i Blur (inizialmente Seymour). Nel 91′ è uscito il loro album, “Leisure”, ancora legato alla felicità estatica del decennio precedente. Canzoni come “She’s so hig”, però, hanno cominciato a circolare, facendo conoscere il nome del gruppo. L’album, senza stare zitto, ha anche raggiunto il settimo posto nelle classifiche. Nello stesso periodo, giocando sul dico non dico già sperimentato da Morrissey qualche anno prima, Brett Anderson, d’incerta sessualità, un po’ gay, un’ po’ glam, fonda, sempre a Londra, gli Suede. Dopo un inizio incerto s’aggiunge Bernard Butler, vera mente creativa del gruppo. Il primo singolo, “The Drowners”, data 1992. Da lì a un anno esce l’album relativo, semplicemente “Suede”. La copertina ritrae, apparentemente, due ragazzi che si baciano. Il disco vince, pochi mesi dopo, il Mercury Prize, come migliore opera musicale del 1993. La pietra, spinta, ha superato la cima del monte, cominciando a rotolare. Il certificato di nascita del movimento data Aprile 1993. Sulla copertina di Select, storica rivista musicale inglese, appare l’allora azzimato cantante degli Suede, Brett Anderson, con alle spalle una Union Jack. La scritta, “Yanks go home”, rivela gli intenti di una persona effeminata, con i capelli lunghi, qualche orecchino e lo sguardo spento. Qualche riga sotto, il messaggio è ribadito da un’ulteriore dichiarazione d’intenti “La battaglia per la Britannia”. Da lì a qualche mese, il secondo album dei Blur è pronto. “Modern life is rubbish”, accompagnato dal singolone triste “For tomorrow”, lancia finalmente la band nelle orecchie, nelle radio e nelle televisioni musicali di tutto lo UK. Anche qui, il messaggio anti-americano è forte, anche se celato. Il titolo originale dell’album avrebbe dovuto essere “Against America”, scartato, legate le mani, dalla casa discografica, timorosa di un suicidio commerciale.

L’essere contro gli Stati Uniti è un must del britpop in fasce, il fuoco sulla spiaggia attorno a cui si ritrovano ragazzi strimpellando canzoni proprie. È uno scontro economico, gli Stati Uniti padroni del mondo mentre la Britannia arranca, sociale, la cultura del baywatchismo, dei neon a tutto spiano, degli hamburger xxl contro le sit-com monocamera, i pub fuligginosi e il fish and chips, musicale, il grunge imperante, le camicie a scacchi, i capelli lunghi e unti contro l’essere inglesi senza un’identità precisa, un grande passato alle spalle e un futuro incerto. Nella battaglia, tempo un anno, si inseriscono prepotentemente due fratelli che, a differenza di Albarn e Anderson, provengono dalla working class ignorante di Manchester, una città del nord, depressa negli anni ’80, lontana dal centro economico e culturale di Londra, addormentata nelle periferie totalitarie di giardinetti a schiera e tendine vittoriane. I fratelli Gallagher sono due nullafacenti, il giovane Liam vivacchia, il più vecchio Noel cambia lavoro continuamente. Il primo demo “Columbia” appare nel 1993, alle radio, senza che si sappia chi siano. La longa manus della Creation Records, etichetta principe del fenomeno Britpop, ha però già messo le mani sulla gallina dalle uova d’oro. Nel 1994, Liam afferma, poco dopo la morte del leader dei Nirvana, che “Kurt Cobain era solo uno sfigato incapace di sopportare la pressione”. Trovandosi a New York, il fratello, ignorante ma non fesso, mette una pezza riconoscendo che “Cobain è stato il Lennon della nostra generazione”. Se inizialmente il movimento si è spontaneamente definito come indipendente e libero, nel 1994 avviene una prima scrematura che, fino al termine della propria esistenza, terrà separato il Britpop prettamente commerciale da quello più verace. Molti dei gruppi fondatori della corrente britannica, Dodgy (per alcuni, la loro “We’re not going to take this anymore” è la mamma del Britpop), Spitfire, Ride, Cast, spariranno lentamente nell’ombra. Molti gruppi sopravvivranno, presentandosi sotto le luci insistenti e illuminanti della ribalta solo in occasione di uscite discografiche di successo, è il caso di Pulp, Supergrass, Verve, Radiohead, Elastica, rimanendo però, mediaticamente e populisticamente, sempre in secondo piano, alle spalle di Oasis e Blur. La causa ha due nomi: Parklife e Definitely maybe. Il terzo album dei Blur e il primo degli Oasis, usciti, nel 1994, a distanza reciproca di pochi mesi. Le differenze tra le due opere sono immense, ciò nondimeno il pubblico risponde entusiasta ad entrambe, la critica idem, le televisioni musicali altrettanto.

Parklife è un album spiccatamente intriso di humor e spirito inglese, londinese nei suoni pop ma ricercati, di massa ma di classe, che spazia da piccole gemme di vita quotidiana “End of a century”, a riflessioni orchestrali “This is a low” e “To the end” (memorabile la versione arricchita dalla voce di Francoise Hardy), da inni populistici e borghesi “Parklife”, a ricerche sociologiche, intrise di dance anni ‘90, sulla sessualità promiscua vacanziera “Girls and boys”. Definitly maybe è un album invece proletario, comunista, disilluso e sporco. Sudicio nei suoni rudi e rozzi, nella voce di Liam ruvida e secca come carta smeriglia, nell’aspetto da sfigati e tamarri di periferia, contrapposto all’ironia cittadina e consapevole dei Blur. L’album passa dai sogni quotidiani “Live forever”, forse la colonna sonora del Britpop in toto, alla rabbia provinciale “Bring it on down”, agli svaghi artificiali “Cigarettes and alcohol”, fino alla disillusa quotidianità della leggera e dolce “Married with children”. La critica, sempre alla ricerca del nuovo gruppo migliore al mondo, è compatta, il pubblico, entusiasta. I Blur sono la classe media inglese, gli Oasis i lavoratori mai come ora arrabbiati ed esaltati, fiutando aria di cambiamento. Il partito laburista ha appena cambiato guida, Tony Blair ne ha assunto il controllo. In un intervista afferma:”Vado ogni giorno al lavoro ascoltando Definitely maybe”. L’appartenenza alla gente, allo strato più basso della popolazione, il com-patire le esperienze di vita quotidiana sono fondamentali per la commercializzazione del fenomeno musicale Britpop. Le case discografiche capiscono e si adeguano. In un tale contesto, il successo e la bontà artistica di “Dog Man star”, ultimo album degli Suede con l’apporto di Bernard Butler, passano in second’ordine, così come il primo album dei Verve “A storm in heaven”, opera di onesti mestieranti della musica con spiccate preferenze per le droghe artificiali. Si cominciano invece ad istituzionalizzare nomi che, ben confezionati, l’anno a venire, contribuiranno a fare del 1995 l’anno del Britpop.

Federico Didoni