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Cattedrale nel deserto del familiare e del quotidiano: Mantova

Dalla torre di Solferino osserviamo le strade, come meridiane, tracciare la planimetria su distese e promontori, speranze e sogni di chi anni fa lasciò la campagna per far fortuna in città e che ora torna nei fine settimana al nido. Geometrie esistenziali che si raccordano nell’atto fideistico consumato tra i campi e il cielo, tra un vessante ricordo del passato e un presente cristallizzato che hanno trasformato i sobborghi in piacevoli luoghi di villeggiatura enogastronomica, la città in gioiello rinascimentale dell’Unesco. Solchi sulla superficie corrugata della sbrisolona, questo è l’effetto suggestivo offerto dagli appezzamenti: tettonica delle placche della fuga dalla metropoli, scienza esatta del benessere. Mantova è prima di tutto l’onestà delle sue campagne, dove si respira ancora un forte senso religioso fatto di sudore e amore per la terra, è provinciale lietezza cantata dietro i paraventi di una storia tanto importante da farla sembrare aristocratica e tracotante nonostante i saccheggi che l’hanno spogliata. Il tutto come avvolto da una patina che la protegge e a volte soffoca come solo amore e cellophane sanno fare. Si vive in una bolla fuori dal tempo. Il risultato è quel romanticismo struggente e fasciato di solitudine che sembra contraddistinguerla, nonostante il vivace via vai di cittadini e turisti lungo l’arteria pulsante che porta da Piazza delle erbe a Piazza Sordello, cuore e mente della città, dove si reinnesta l’artificio che continua a preservare l’incanto. Dall’orologio sovrastante un’eterna mezzanotte alla Perrault, del resto siamo in terra di zucche: quelle che, ballerine per vocazione della scatola in pietra della Rotonda di San Lorenzo, si scoprirono pedine del Subbuteo ciondolante della sala dei Giganti in Palazzo Te, fuggono se il cielo viene a piovere sulla città. E lo fanno come la storia gli ha insegnato, velocemente. Perché alla pesantezza monumentale della sua architettura Mantova contrappone la leggerezza storicamente attribuita ai cavalli di casa Gonzaga, precursori antesignani di Nuvolari, il mantovano volante. Fastina Lente lungo le vie che portano ai laghi, nel parco del Mincio, itinerario per ciclisti della domenica ed escursionisti da picnic primaverile formato famiglia, dove seguendo la carovana di bionde ninfee lo sguardo ritorna a posarsi sul profilo delle cupole, dei torrioni, delle guglie cittadine. Mille ettari di ambiente palustre perimetrati da canne e carici, labirinti di canali e piccole pozze d’acqua. La rivincita della geografia dell’anima. L’amore può ingannare e condurre in una palude, per poi sparire disse una volta Schopenhauer. Non venne mai a Mantova lui, altrimenti avrebbe capito. Avrebbe visto l’amore a passeggio per i suoi acquitrini.

Luca Colnaghi