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Intervista a Giuseppe Giarrizzo

Inauguriamo questo spazio con l’intervista a Giuseppe Giarrizzo, professore emerito di Storia moderna e accademico dei Lincei, studioso di Storia dell’Europa, massimo storico siciliano contemporaneo.

1) Come e quando nasce il suo interesse per gli studi storici?

I miei interessi in senso originario erano di tipo più filologico letterario che non storiografico, l’elemento originario di interesse e di attrazione fu collegato alla presenza di Santo  Mazzarino a Catania, su cui ho scritto, di recente, un insieme di ricordi sul periodico”Mediterraneo antico”, nel quale rievoco questo impatto tra filologia e interpretazione storica. Devo dire che gli anni tra il ’43 e il ’44 (di questa formazione) furono anni di altissima tensione politica, nei quali c’era la sensazione che toccasse alla nostra generazione rifondare l’Italia liberata dal fascismo nella discussione politica di quel tempo.  Sembrava ci fosse una fortissima sollecitazione all’impiego dello strumento storiografico come elemento di formazione civile e di formazione politica.  Ma,in genere, sono i fatti del vivere a decidere di scelte più o meno mirate.

2) Quando decise di concentrarsi sulla Sicilia?

La scelta sostanzialmente avvenne con il centenario dell’Unità d’Italia, tra il ’60  il ’61, quando si progettò un convegno internazionale a Palermo relativamente al rapporto tra Sicilia e Unità d’Italia nel periodo milazziano, periodo in cui il problema era quello di fare un processo all’Unità italiana per quello che in realtà aveva tolto e non dato alla Sicilia, ma il progetto cadde. Venne poi ripreso con altri rappresentanti e in modo diverso: non mi identificavo con la cultura comunista ma cominciai ad interessarmi ai problemi della mancata riforma agraria, al problema del caso di Bronte, agli errori di Garibaldi e poi scrissi il libro su Biancavilla. Tuttavia l’impostazione di quel saggio era sì porre al centro la questione contadina, ma di guardare dietro, al ‘700, col quale avevo più esperienza in termini di storia intellettuale. A quel punto la Sicilia si impose tra i miei studi, ma io stesso sono sorpreso del fatto che vengo considerato uno storico della Sicilia: non era la mia prospettiva di lavoro.

3) Ha origini siciliane, secondo lei, la Mafia?

Io credo che siamo in presenza di modelli importati. Sono convinto che gran parte della cosiddetta ideologia della Mafia sia il risultato di una grande scuola. Il problema della mafia, al di là delle sue atrocità, è anche il problema del concorso culturale nel promuovere naturalmente il fatto mafioso ad un elemento identitario. All’interno di questo processo dobbiamo chiederci quando questo cominci col diventare un problema politico. L’emigrazione ha promosso tutto ciò: l’anticipo dei soldi da parte di un agente di una casa su un’ipoteca o su qualsiasi altra garanzia relativi al viaggio, il reperimento di passaporti, lo sbarco clandestino, il consecutivo inserimento nel lavoro. Io sono stato sempre convinto che Cosa Nostra non sia un processo dall’interno ma sia un processo dall’esterno. Il problema è il carattere della repressione, rivolta a colpire i pesci piccoli mentre quelli grossi si camuffano. Il problema non è quello di eliminare la mafia politica e non farla più riproporre, ma è quello della magistratura. La mafia in molti casi è una forza di supplenza nei confronti del giuridico.

4) Uno sguardo indietro: una Sicilia ‘internazionale’ quella dei Fasci?

Il caso siciliano è un caso nel quale un insieme di circostanze portano al verificarsi di un processo che senza certi sviluppi successivi sarebbe stato individuato all’interno di un più generale movimento europeo che andrà a raccogliere quell’esperienza che avrà rilievo attraverso la ricerca che i modelli associativi pongono. Io sono persuaso, dopo i grandi lavori di questa politicizzazione del mondo rurale, del fatto che il secondo Ottocento europeo, Russia compresa, sia stato il momento più alto della politicizzazione di questa ‘classe sociale’. La fortuna dei fasci è ancorata in qualche misura a questi elementi di attenzione verso il socialismo rurale, il fatto successivo fu poi complicato nel contesto siciliano da altri fattori.  Significativo che i fasci non furono solo in Sicilia, tuttavia quell’altro versante non produsse questi risultati, non divenne mitologia, né un elemento significativo e simbolico. La mia convinzione è che un elemento di questo tipo costituì la promozione a soggetto politico del mondo rurale, che non è cosa da poco. Contribuì ad una lettura positiva all’azione compiuta dalla social-democrazia tedesca, cogliendo elementi che spiegarono gli interessi dell’area spagnola.

(Realizzata il 7 Ottobre 2008 – foto e riprese di Salvo Spina)

Sabina Corsaro