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Intervista a Michele Placido

La seguente intervista risale al 6 marzo del 2003 ed è inedita.

D: Quanto di te sacrifichi ogni volta che interpreti un personaggio? Tu riesci ad annientare completamente te stesso in quel momento per entrare nel personaggio oppure il personaggio diventa in parte Michele Placido?

I: Tutti e due. Ti accorgi che in ogni personaggio c’è qualcosa di te. Certo, bisogna farlo venire fuori, bisogna utilizzarlo solo in funzione del personaggio. Presso l’Accademia di Arte Drammatica il metodo a cui facevo riferimento era quello di Stanislavskij ma la questione non è quella dell’identificazione o meno: molta gente fa teatro pensando che tutto sia scuola e tecnica, è come per il pianoforte, per la chitarra: se non c’è il talento… La tecnica tu la puoi applicare al tuo talento ma molte volte il tuo talento cozza con certe tecniche e allora devi trovare la tua tecnica (come diceva Vittorio Gassman) e la tua tecnica è difficile da spiegare ed è difficile a volte anche da far applicare ad altri studenti. Non c’è cosa più difficile che insegnare recitazione: si può insegnare l’impegno, si può insegnare il proprio apporto personale attraverso l’esempio, poi le tecniche individuali sono difficili da applicare ad altri soggetti. Però si può seguire la tecnica di quel soggetto, soprattutto quando alla base c’è la sensibilità e l’emotività, per far sì che poi il giovane allievo conquisti delle emozioni.

D: Qual è la conquista che tu hai fatto oggi? Guardandoti indietro come vedi i personaggi interpretati dal Michele Placido di allora e quelli rivisitati dal Michele Placido di oggi, più maturo ed esperiente?

I: Ti rispondo con una semplice risposta di Paolo Stoppa: “Quando io avevo 20 anni usavo certe parole, le gonfiavo di enfasi perché non avevo l’esperienza umana e pensavo di interpretarle bene. Oggi, a distanza di diversi anni di esperienza umana, quando dico amore, quando dico morte, mi vengono in mente tante cose: gli amici che non ci sono più, i miei sentimenti, il mio passato e tutto questo riempie ancor di più la parola e l’interpretazione”. Per cui se guardo con tenerezza al Michele Placido di tanti anni fa riconosco una certa gagliardia fisica, però mentalmente l’attore si comincia a formare dopo i 40 anni.

D: Hai mai prediletto un ruolo piuttosto che un altro? Tu sei un po’ il bianco e il nero, nel senso che hai interpretato il cattivo, l’eroe (con il personaggio di Cattani) e poi sei arrivato addirittura all’emblema della santità con l’interpretazione di Padre Pio. C’è un personaggio a cui tu, per natura, per amore ti senti più vicino o che interpreti con meno sacrificio?

I: L’ideale sarebbe mettere in scena se stessi, nel senso di trovare un personaggio che medi alla tua natura e alla scrittura drammaturgica che è anche la cosa, dicono, più difficile. Mi è successo poche volte di interpretare un personaggio che abbia delle reali consistenze umane e personali e questo naturalmente non è facile perché non tutti i registi (o non tutti gli autori) scrivono proprio sulla tua persona. Tuttavia il personaggio più vicino che mi è stato più facile interpretare in qualche modo è stato Padre Pio, eppure io non sono monaco e neppure Santo, anche se la mia vita è stata sempre una continua ricerca del perché dell’esistenza.

D: Ed è stata questa sete di risposte esistenziali ad averti immesso nella strada della recitazione?

I: Probabilmente anche questo.

D: Cosa pensi della dicotomia maschera/volto pirandelliana? Talvolta i personaggi sono una sorta di costruzione, una sorta di esito momentaneo nell’illusione di aver fissato il caos, il flusso dietro la loro forma?

I: Pirandello è uno dei miei autori preferiti. Il suo personaggio si crea una forma, anzi gliela creano gli altri e le condizioni. Poi questo si frantuma nel confronto con una verità e viene fuori la labilità e la fragilità su cui era stata costruita quella forma. Se penso ad un personaggio nell’universo teatrale penso ad Otello che è l’emblema della disgregazione di tutto ciò che si era creduto di aver costruito.

D: Cosa ti piacerebbe interpretare? Michele Placido ha tutt’oggi un sogno nel cassetto?

I: Restando in ambito pirandelliano mi piacerebbe affrontare “Sei personaggi in cerca d’autore” per approfondire il concetto di ‘verità-finzione’: la recitazione degli attori e la verità dei personaggi. Questo è uno dei miei sogni.

D: Un’ultima domanda: quanto potere e quanta influenza possono avere il cinema, il teatro (il messaggio dell’attore, del dramma) sulla società e quindi sull’uomo?

I: Il rito che si svolge ogni sera all’interno di una sala (che sia di un cinema o di un teatro) e che vede protagonisti attore e spettatore può apportare nella conoscenza dell’uomo un beneficio straordinario e le scelte individuali possono in quella dimensione incidere sia a livello sociale che politico, senza la mediazione di chi decide per noi.

Sabina Corsaro