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La carne da macello di Emma Dante

Carnezzeria
trilogia della famiglia siciliana
di Emma Dante
prefazione Andrea Camilleri
FAZI – pp. 180
Collana Le Vele

Il teatro nasce dal rito sacrificale. Lo sa bene Emma Dante [1] che da oltre dieci anni mette in scena spettacoli che destano clamore e che, fatto anomalo nel panorama teatrale italiano, restano in cartellone da più di un lustro.

Fa parte di quell’avanguardia tutta siciliana che negli ultimi anni ha portato alla ribalta le voci fuori dal coro di Ciprì & Maresco e di Spiro Scimone e Francesco Sfarmeli e che raccontano di quel microcosmo che è il sottoproletariato urbano di Palermo.

Potrebbe sembrare un teatro di nicchia, destinato ai pochissimi che conoscono la lingua -rigorosamente dialetto stretto- e che vivono quella realtà. Ma le apparenze ingannano se è vero che gli spettacoli di Emma Dante sono rappresentati su tutta la penisola e ben oltre i confini suscitando l’attenzione e l’entusiasmo degli spettatori d’oltralpe. Da qualche mese la regista è in giro per l’Italia impegnata nella presentazione della sua raccolta di drammaturgie “Carnezzeria -trilogia della famiglia siciliana” e racconta come sia stato difficile e doloroso il passaggio dalla rappresentazione alla parola scritta. Già! Perché il lavoro della sua compagnia, Sud Costa Occidentale, si svolge sulla scena. Quando si comincia un lavoro non si parte dalla parola; quella sgorga dal corpo/attore, è parola agita, è parola cantata, non rappresentazione di vita ma vita stessa. Ed Emma fa vivere i suoi attori su scabri palcoscenici poveri di scenografia e ricchi di movimento, suoni, voci, luci che fanno vibrare le corde più intime degli spettatori. Ella stessa definisce i suoi spettacoli come “traversate notturne nell’Oceano”, oscure e tetre ma con momenti bellissimi.

E scava, Emma, in quel ritratto di famiglia in un interno che ha dato vita a questo libro. Spiazzante fin dal titolo, che riprende quello di uno degli spettacoli che compongono la trilogia, Carnezzeria è la macelleria nella quale si consuma il rito antropofago della famiglia. Carnezzeria è la famiglia di Nina, la scimunita, chiusa, protetta e traviata dentro una casa sprangata dove è oggetto dei ripetuti stupri dei suoi tre fratelli che a loro volta sono stati stuprati dal padre. Rimane incinta, Nina, oscenamente “prena” a testimoniare gli orrori perpetrati sul suo corpo dal suo stesso sangue e i fratelli devono disfarsene inscenando una cerimonia di nozze, nella quale Nina aspetta il suo sposo che non arriverà mai. La abbandoneranno lì, inchiodando il suo velo nuziale a terra, il velo che Nina userà come cappio del suo patibolo rovesciato.

La famiglia Carollo è pronta sull’uscio di casa per la sua passeggiata domenicale m’ Palermo, pronti a varcare la soglia della casa-bunker, una casa claustrofobica dove sono in troppi e si autofagocitano, dove regna il caldo e l’arsura e la sensazione di mancanza di linfa vitale. Tutti impazienti di uscire e allo stesso tempo vergognosi di mostrarsi agli altri non riusciranno mai a varcare la porta, il confine col mondo esterno, troppo tesi a ritardare l’ultimo giro di vite prima della morte. “Vita mia è una veglia”, racconta Emma Dante nelle note al testo. Quel letto, che finirà per ospitare l’ennesima unione incestuosa, “è una nave di pietra e quella stanza è il mare che ci risucchia e sparisce.” Il pubblico partecipa alla veglia funebre di una madre per la morte del suo figlio minore e che, nonostante la presenza di altri due fratelli, non trova pace. Come può una madre accettare la morte di un figlio? Non lo fa’, infatti, ma anzi smette il lutto e si veste di rosso, fa’ riecheggiare flash-back di vita vissuta e balla il sirtaki per poter rimandare quanto più possibile il momento della definitiva separazione. La parola qui diviene urgenza di espressione, quella parlata siciliana (integrata da numerose note di traduzione a piè di pagina) che secondo Camilleri, autore della prefazione al volume, “…non solo nasce coi personaggi stessi, ma senza di essa i personaggi non esisterebbero, essa è la necessità assoluta, identificante del loro vivere scenico.”

Carmen Mercuri