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“La pianista” o del desiderio perverso

«La bambina è l’idolo della madre, che in cambio pretende un ben misero compenso: la sua vita» (p. 34)«Io non ho sentimenti, e anche se ne avessi uno non prevarrà mai sulla mia intelligenza» (Isabelle Huppert)

Tra Elfriede Jelinek, Nobel per la Letteratura 2004, Michael Haneke, controverso regista austriaco che con questo film vinse il Gran Premio della Giuria a Cannes 2001 e Isabelle Huppert, Miglior Attrice della medesima nonché Signora borghese del cinema francese, non poteva che nascere un incontro artisticamente fulgido ed elevato, in cui i talenti della scrittura, della musica e dell’immagine si fondono armoniosamente in una sonata schubertiana dove la perversa repressione funge da lied portante. Erika Kohut insegna pianoforte al Conservatorio di Vienna; a casa c’è la madre ad attenderla, guardiano indefesso di purezza che esige dalla figlia il controllo di corpo, mente, cuore, soffocando ogni pulsione al di fuori dell’apparente integrità di una condotta irreprensibile scandita dalla legge matriarcale. L’espediente di Erika per spezzare la claustrofobica liaison di amore/odio, servo/padrone, intimità/sottomissione, è l’azione patologica, autolesionistica, voyeristica: acquistare vestiti che non indosserà mai; mutilarsi i genitali; osservare atti sessuali in squallidi peep-show e negli anfratti del Prater, parco dei divertimenti bipolare per grandi -di notte- e piccini -di giorno-, che ancora una volta assurge al ruolo di emblematico spazio aperto e vagabondo come già per Orson Welles nel Terzo Uomo (1949) e la coppia Ethan Hawke/Julie Delpy in Prima dell’alba (1995). Walter Klemmer (Benoît Magimel, Miglior Attore) ama la pianista, come un ragazzo intrigato dalla fantasia della Professoressa non più giovane cui insegnare la passione, ovvero con idealizzazione e narcisismo. Quello che Walter non sa è che Erika non può amare, ma solo sottostare alla sopraffazione violenta di sé e degli altri: quando essa potrebbe uscirne, vivere invece che spiare dal buco della serratura, sarà troppo tardi. Lo stile asettico e sarcastico della Jelinek (Le amanti, La voglia, Voracità), ben si sposa con l’efferattezza visiva di Haneke (Benny’s Video, Funny Games, Niente da nascondere), il quale, circondato da attori-feticcio, pone l’accento più sulla depravazione intrinseca di Erika che sull’influsso materno (Anne Girardot nel film) come causa diretta del comportamento deviante, punto cruciale del romanzo. Ciononostante lo spirito corre parallelo lungo l’esplorazione dei meandri (dis)umani cui la famiglia, l’educazione, la morale del buon nome possono condurre, stritolando in dinamiche scorrette e ricattatorie i proprio membri. Forse che il fascino della borghesia non è più così discreto?

Alice Briscese Coletti