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La Sicilia e la destra storica: un saggio di Giancarlo Poidomani

Giancarlo Poidomani è Ricercatore di Storia Contemporanea, presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Catania. Lo abbiamo incontrato a Modica, sua città natale, dove ha appena presentato la seconda edizione di “Senza la Sicilia l’Italia non è una Nazione” (Bonanno, 2009), un saggio sul quindicennio postunitario.

Prof. Poidomani, il suo libro analizza il contributo dei governi della Destra storica al coinvolgimento della Sicilia nel processo di “State building”. In quali provvedimenti si espresse?

I governi della Destra storica portarono a compimento importanti realizzazioni in Sicilia. Costruirono le ferrovie, che i Borboni avevano del tutto trascurato: già nel 1876 la rete ferroviaria siciliana era stata predisposta nelle sue linee principali e collegava le tre maggiori città, Palermo Messina e Catania. Realizzarono centinaia di chilometri di strade e ampliarono le strutture dei porti. Favorirono l’esportazione dei prodotti tipici, dei cosiddetti “monopoli naturali” dell’isola, con la creazione delle camere di commercio. Costruirono una rete postale e telegrafica. Edificarono scuole e diedero impulso al sistema dell’istruzione, pur interessandosi più a quella superiore che a quella elementare. Pianificarono l’assetto urbanistico delle città e realizzarono la prima riforma agraria nell’isola. Soppressero le corporazioni religiose, utilizzandone il vasto patrimonio immobiliare per l’edilizia pubblica del nuovo Stato e della sua burocrazia.

Quali elementi di criticità individua nell’azione di quei Ministeri?

Il loro approccio fu caratterizzato da scarsa comprensione di quanto avveniva in Sicilia, ma è altresì vero che il processo di costruzione dello Stato era appena avviato e il rischio di spinte centrifughe era reale. La Destra dovette quindi reagire con il pugno di ferro, anche per evitare tali pericoli. Certo, in alcuni casi la distanza, fisica e culturale, tra Torino e Palermo, portò a eccessi nell’uso della violenza “legale” da parte dello Stato.

In quegli anni, la Sicilia fu posta più volte sotto stato d’assedio, a causa di un ribellismo radicato. Furono soltanto rigurgiti conservatori e reazionari?

Nei primi anni postunitari, i tentativi insurrezionali e rivoluzionari vennero da più parti: i filo-borbonici puntavano a rimettere la dinastia sul trono di Napoli; i mazziniani continuavano a cospirare con l’obiettivo di uno Stato repubblicano; i socialisti, dagli anni ’70, presero a tramare contro lo “Stato borghese”. Spesso, però, trame e congiure presentavano commistioni tra questi elementi e, a volte, delinquenti comuni o mafiosi.

Quale rilievo ha attribuito alle inchieste parlamentari di quegli anni, come quella realizzata da Franchetti e Sonnino?

Un’inchiesta importante, di solito sottovalutata, che ho usato come fonte primaria, è stata quella parlamentare del 1875-76, sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia: l’inchiesta Bonfadini. Voluta dagli ultimi governi della Destra, si concluse quando presidente del consiglio era ormai Depretis. Fu molto utile per far capire al governo quanto ancora restava da fare per la Sicilia.

La frase che dà il titolo al saggio è di Agostino Depretis, un avversario, allora, della Destra storica.

La frase di Depretis coglieva l’esigenza di portare a compimento quel processo d’integrazione della Sicilia nel nuovo Stato. Non rappresentava una critica all’operato dei suoi predecessori: voleva chiarire, in Parlamento, che bisognava accelerare quel processo di State building avviato nel 1861.

Qual è il valore aggiunto di questa seconda edizione, visto anche il numero più cospicuo di pagine?

Sì, conta oltre cento pagine in più: ho utilizzato nuovi documenti, rinvenuti presso l’Archivio Centrale dello Stato. Sono emersi tanti altri interventi, realizzati in Sicilia dai primi governi postunitari. Tra due anni, celebreremo il 150° anniversario dell’Unità e il mio saggio potrà rappresentare un contributo alla discussione.

Enrico  Sciuto