Pubblicato il: 10 Maggio, 2009

Lo scafandro e la farfalla

lo-scafandro-e-la-farfallaLa vita è spesso immaginata come una linea retta: una successione di eventi logici e sequenziali, ma in realtà essa può cambiare da un momento all’altro e “l’imprevisto”, che si manifesta senza alcun preavviso, può sconvolgere l’esistenza. “Lo scafandro e la farfalla” (regia di Julian Schnabel) racconta una storia vera, una di quelle storie in cui lo spettatore che si trova dall’altra parte dello schermo non può che rallegrarsi di fronte alle proprie tristezze, fino a considerare capricci quelli che fino ad un istante prima aveva ritenuto fattori importanti della propria vita. Il film ricostruisce in maniera esemplare la vita di Jean Dominique Bauby, giornalista francese e redattore capo della rivista Elle che nel 1995, all’età di 43 anni, è colpito da un ictus. Jean Dominique, completamente paralizzato, si risveglia in un letto d’ospedale, prigioniero di un corpo che non sente più suo. Egli riesce a controllare solo il movimento dell’occhio sinistro, con cui stabilisce una comunicazione col mondo esterno. L’occhio, infatti, diventa la voce di Dominique ed attraverso i movimenti della palpebra ed un apposito alfabeto, egli riesce a costruire parole, frasi, pensieri, fino a scrivere l’omonimo libro: “Lo scafandro e la farfalla”, a cui il film si ispira. Nonostante la sedia a rotelle, lo sguardo perso nel vuoto, le labbra deviate dalla malattia, Bauby trova conforto nei suoi sogni, avvalendosi di due facoltà che la malattia non ha intaccato: l’immaginazione e i ricordi. La fantasia lo conduce su spiagge bellissime, verdi montagne, lussuose automobili e alla fine, quando tutto è finito, Jean Dominique si ritrova nuovamente in un letto d’ospedale. La condizione di infermità, induce il giornalista a riflettere sulla propria vita e sulle “opportunità” sprecate, soprattutto con la famiglia e i propri figli. La cinepresa, con le sue inquadrature basse, “taglia” la testa ai vari personaggi e rappresenta, metaforicamente, l’occhio di Jean Dominique: lo spettatore, in questo modo, partecipa attivamente alla storia fino a sentirsene parte. E se da un lato il protagonista stenta a reagire di fronte ad una condizione di sofferenza prettamente umiliante, dall’altro c’è chi “scappa” di fronte alla condizione di malattia abbattutasi su un proprio caro: di certo è lacerante il confronto tra “il prima” e “il dopo” e non è facile accudire una persona paralizzata. Tuttavia, il malato per guarire o alleviare le proprie sofferenze ha bisogno di affetto, di non sentirsi solo e questa è una verità su cui ci si dovrebbe fermare a riflettere.

Francesca Squillaci

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