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Nel cuore che ti cerca

Rita ha dieci anni appena quando conosce il suo calvario. Rapita da un maniaco, rinchiusa in una squallida stanzetta tra topi e avanzi di cibo, con un televisore a tenerle compagnia, e seviziata per lunghissimi interminabili anni. Paolo Di Stefano, giornalista del Corriere della Sera e scrittore, racconta la storia di un’infanzia violata prendendo spunto da un fatto di cronaca, (la storia di Natasha Kampusch, la ragazza scomparsa a Vienna nel ’98 e tenuta sequestrata per otto anni) sviluppa un noir psicologico dove i ruoli tra vittima e carnefice si intrecciano ambiguamente. Un tema che ricorre spesso nei suoi romanzi. Rita prova odio e affetto per il suo aguzzino, rabbia e speranza, più volte avrebbe la possibilità di fuggire ma rimane inerme accettando la sua condizione di schiavitù. E’ convinta di poterlo dominare, tra i due è l’uomo a sottostare, in quanto debole, in quanto morbosamente malato. Un romanzo intenso e coinvolgente, a tratti commovente, tremendamente attuale, che contiene elementi forti. Parallelamente il romanzo procede con l’incessante ricerca del padre della ragazza, un giornalista fallito, con una situazione familiare difficile, ma tutto sommato un personaggio positivo, caparbio, non privo di slanci poetici, il quale non intende rassegnarsi alla perdita della figlia. Pagine di oscura prigionia e bagliori del mondo esterno fanno da contrasto connotando la storia di una propria impronta stilistica. La tensione emotiva della trama cresce vertiginosamente con lo scorrere degli eventi. Di Stefano compie un viaggio esplorativo nei labirinti dell’animo umano, apre voragini di dolore, percorre tragitti di profonda inquietudine, una sorta di ricamo interiore sulla complessità e la fragilità della psiche, con finezza di scrittura e acume introspettivo, a un ritmo serrato che coinvolge il lettore. Una storia che suscita orrore, fastidio, risentimento, tristezza, ma anche tanta tenerezza. Una miscela esplosiva di sentimenti contrastanti, con la sua severa morale capace di smuovere le coscienze. “Nel cuore che ti cerca” è stato finalista al premio Strega e al Supercampiello.

Paolo Di Stefano
romanzo Rizzoli
pagg.296 €19.00

Intervista a Paolo Di Stefano

D. Di Stefano, questa è una storia dura, dall’impatto violento, perché ha voluta raccontarla ai suoi lettori?

R. Potrei rispondere che non sono io ad essere stato attratto da quel fatto ma è stato quel fatto a inseguirmi. La realtà è che uno scrittore, in genere, vive di ossessioni: una delle mie, che mi insegue (appunto) da quando ho cominciato a scrivere, è l’infanzia minacciata dagli adulti, dal mondo, dal destino, dalla malattia eccetera. L’infanzia minacciata, l’infanzia cui per qualche ragione è impedito di crescere. E’ un’immagine che mi risulta quasi insopportabile: non riesco a tollerare che un bambino soffra, mi pare profondamente ingiusto e inaccettabile, e forse è per questo che ci scrivo sopra i miei romanzi, dal primo (“Baci da non ripetere”) a “Tutti contenti”. Quando l’infanzia si trova, per qualche ragione, a sfiorare la tragedia o la morte, la mia sensibilità si accende quasi furiosamente e mi costringe a scrivere per liberarmi (almeno provvisoriamente) di quel trauma. Ecco perché mi sono messo a raccontare la storia di Rita. Ma alla fine forse per una risposta più convincente potrei ricorrere a Gadda: “Il mio libro è il prodotto di una normale attività fisiologica: l’ho scritto per la stessa ragione per cui il mio cuore batte, i miei polmoni respirano…”.

D. Certi traumi infantili si ripercuotono negativamente per l’intera esistenza, e spesso elementi esterni intervengono quando un minore non è protetto dai genitori. Quanto è importante il calore di una famiglia sana per la formazione di un individuo?

R. Mi rendo conto che continuo a girare intorno a questi temi trovando solo risposte parziali. Ho come l’impressione che le famiglie “sane” tradizionalmente intese non esistano più: c’è sempre qualche ragione endogena o esogena che interviene a turbare un equilibrio in genere già fragile. Tuttavia, è chiaro che la famiglia rimane il luogo centrale per la formazione (e per la deformazione, purtroppo) individuale. Per questo, la famiglia è sempre più un nucleo tematico interessante per la letteratura: è una sorta di inesauribile motore di immagini e visioni del nostro tempo. E’ come se in essa fosse contenuta una forza mitica di tensioni primarie. Me lo ha fatto notare Gabriele Pedullà in una sua recensione apparsa sul “Manifesto”: in fondo, la pedofilia che io racconto è il sintomo estremo dell’impazzimento in atto del ciclo delle generazioni. Il pedofilo non è oggi colui che sovverte l’ordine biologico ma colui che rende manifesto un principio più generale di una società di lolite dodicenni e settantenni. Una società fatta di adulti infantili e di bambini costretti a maturare troppo presto.

D. Rita, la protagonista del suo romanzo, instaura un legame quasi di complicità con il suo carceriere, chiamato da lei affettuosamente “Il signor Sergio”. Si sviluppano tra carnefice e vittima quei meccanismi contorti che rendono quest’ultima estremamente debole, incapace di reagire. Nel suo romanzo scava molto sulla fragilità della psiche umana. Cosa ha voluto fare emergere?

R. Non c’è intenzionalità nel mio racconto. Dunque, non posso dire di aver voluto far emergere qualcosa. Semplicemente, man mano che procedevo nella scrittura e via via che i personaggi prendevano voce forma e vita mi accorgevo che affioravano, a mia insaputa, meccanismi psicologici ambigui, doppi. Rita cominciava a dire di essere lei la più forte, quasi volesse proteggere il suo carceriere. Quando accadono delitti del genere, la televisione e le cronache dei giornali non ci dicono mai abbastanza: raccontano questi fatti restando in superficie, descrivendone le dinamiche e magari tirando fuori dal cappello ogni tanto qualche curiosità più o meno pruriginosa. Soprattutto non mettono mai in gioco i sentimenti, le psicologie delle persone, le emozioni profonde e autentiche. Per capire davvero ci vuole qualcosa in più. Ecco, io sono partito da lì, da dove poteva partire la letteratura, dalle parole e dalle emozioni, dalle parole che esprimono emozioni. E da lì a poco a poco si sono formati i personaggi. Direi che ho scritto questo libro per dare a Rita – ma anche a suo padre Toni Scaglione – la possibilità di raccontare la sua tragedia perché tornasse a vivere nel mondo. Per questo ho fatto un enorme sforzo di empatia. Ho cercato di immedesimarmi in lei e di lasciarla parlare dentro di me. Via via che il lavoro procedeva, questo processo di identificazione mi riusciva sempre più naturale. Mi sentivo come una sorta di ventriloquo che trascriveva sulla pagina la fragilità, le paure, le fantasie raccontate dalla ragazzina attraverso di me.

D. Lei è originario di Avola (SR). Ad Avola c’è l’associazione di don Di Noto che si batte incessantemente contro la pedofilia, un’ associazione di volontari. Pensa che le Istituzioni facciano abbastanza per combattere il triste fenomeno degli abusi sui minori?

R. I bambini vittime di abusi crescono in maniera esponenziale e preoccupante. Ammiro moltissimo le persone che si battono contro questa sciagura sociale. Ma non so se le Istituzioni possano davvero fare qualcosa attraverso dei decreti legge o altro. Ritengo piuttosto che si tratti di questioni più profonde non sanabili con atti legislativi o di polizia. Si tratta di questioni che affondano le radici nei valori culturali e morali della nostra società. Viviamo un’epoca di capovolgimenti spaventosi che rischiano di “giustificare” ogni tipo di deviazione o di perversione. Per esempio, trovo inammissibile l’uso che viene fatto in pubblicità e in televisione del corpo femminile e dell’infanzia. Bisognerebbe cominciare da una rivoluzione dei costumi e della cultura.

D. Come concilia la sua attività di giornalista con quella di scrittore?

R. Da un po’ di tempo le due attività convivono senza troppo confliggere. Sul piano pratico, è più semplice che in passato, perché essendo ormai da sette anni un inviato del Corriere non ho obblighi stretti di presenza in redazione e i tempi di lavoro sono molto più flessibili. Dunque posso organizzare meglio i tempi della scrittura “creativa”. Ma anche sul piano teorico le cose si sono semplificate: mentre prima pensavo che non dovessero esserci sovrapposizioni di sorta, oggi sono convinto che l’occhio e l’orecchio del giornalista possono essere utilissimi allo scrittore. E riutilizzo nei romanzi molti materiali raccolti sul campo. Certo, poi bisogna sempre tener ben distinte le cose nell’atto della scrittura: e cioè non cedere mai alla tentazione di fare il giornalista scrivendo romanzi e di fare lo scrittore facendo articoli di giornale.

Salvo Zappulla