Pubblicato il: 5 Aprile, 2008

Quella piaga sociale chiamata discriminazione

Dall’osservazione della realtà quotidiana si evince che, nonostante il processo di evoluzione multiculturale che caratterizza l’attuale società europea, non sono ancora debellati fenomeni di esclusione sociale derivanti da ideologie estremiste quali ad esempio il razzismo e la xenofobia.

L’articolo 13 del trattato CE stabilisce che l’UE può prendere provvedimenti per “combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”. L’uguaglianza davanti alla legge pare quindi un fatto indiscusso, ciononostante nella vita di ogni giorno molte persone subiscono discriminazioni per molteplici motivi. Da un’indagine condotta nel 1997 dall’UE è emerso che il 33% dei cittadini europei intervistati ritenevano di considerarsi spesso od occasionalmente razzisti. Ciò denotava e purtroppo denota tuttora – causa gli episodi d’intolleranza di stretta attualità – la considerevole presenza nel territorio dell’Unione di fenomeni quali la xenofobia, l’antisemitismo e altre forme discriminatorie che violano i diritti umani. Nella dichiarazione universale dei diritti fondamentali dell’uomo, infatti, all’articolo n.1 si legge che “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Niente viene da obiettare sulla prima parte, mentre sorgono spontanee riflessioni sulla seconda. Appare quanto mai evidente che in merito agli atti discriminatori perpetrati per motivi di origine etnica, nazionalità, religione, orientamento sessuale ed handicap, la radice del problema sia da individuare in coloro che le pongono in essere. Il problema, dunque, non è rappresentato dall’esistenza di differenze tra le persone, ma dalla incapacità delle stesse di comprenderne il valore. La gente ha spesso paura di ciò che è diverso perché non lo conosce, oppure perché s’illude di conoscerlo. Basterebbe quindi preoccuparsi di curare questa forma di timore per sconfiggere l’intolleranza? No. Sfortunatamente no. Sarebbe, tuttavia, certamente utile per iniziare ad invertire la tendenza. Rappresenterebbe un primo passo. Piccolo, ma pur sempre un passo avanti. Qualora non si riuscisse a causare un decremento di episodi di xenofobia e di altre discriminazioni, quantomeno se ne arresterebbe la crescita. Ma quale sarebbe allora la strada da percorrere per giungere ad una tale meta? La retta via non può che essere una: l’educazione. Risulta di fondamentale importanza, infatti, l’educazione da impartire ai bambini non solo tra le mura domestiche ma anche e soprattutto in ambito scolastico, perché passa proprio dall’apprendimento il processo culturale che consente di acquisire quella consapevolezza tale da permettere ad un individuo di evitare di rendersi attivo protagonista di beceri fenomeni discriminatori. E se un errore commesso dalla famiglia durante questo percorso di crescita intellettuale può essere tollerato – sebbene non giustificato – non può accadere altrettanto se a cadere in fallo sono le istituzioni. Lo Stato, difatti, ha il dovere di collocare nelle scuole educatori preparati affinché gli alunni possano essere adeguatamente sostenuti non solo lungo la strada del mero indottrinamento ma soprattutto lungo il lastricato sentiero della formazione personale. Guardarsi indietro, quindi, ormai non ha più senso – se non per prendere coscienza di quel che è stato – giacché ciò che conta è concentrarsi sul presente per costruire poco alla volta le fondamenta di un solido futuro, dove l’emarginazione sociale possa rappresentare una frazione minimale del quotidiano vivere.

Andrea Bonfiglio

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