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Porcile

di Pier Paolo Pasolini
regia di Massimo Castri

Catania, Teatro Stabile – Una fiaba, un racconto, una storia per l’infanzia è quella di Pasolini, se la si guarda attraverso gli occhi dei bambini. Una tragedia novecentesca,  una denuncia (e ricognizione ) del marcio sociale, se la si guarda con gli occhi degli adulti. Ma è fiaba nera, racconto perturbante, storia cruda, in cui i buoni sono i diversi e i cattivi… sono i diversi.  Vi è tutto Pasolini in questo testo scritto per il teatro: la rabbia verso gli elementi avariati della borghesia, la consapevolezza dell’annientamento dell’individualità a sé, la condanna per chi è ‘altro’ rispetto ad un mondo omologato. Quelli analizzati sono gli ultimi scorci degli anni ’60, catalizzatori di proteste e stagnazioni. Nel campo della arti figurative sono gli anni in cui Andy Warhol realizza la serie di opere Death and Disaster; quelli in cui Lewitt conia il termine Arte concettuale. Sono gli anni in cui la Germania, così come tutta l’Europa, assapora le conseguenze  delle scelte politiche ed economiche realizzate dai  ‘padri’. Una Germania attorno alla quale gira lo spettro degli effetti funesti di un passato che può solo modificare il suo aspetto (come per il personaggio di Clauberg, ex Ding, arricchitosi con il traffico dei denti d’oro sottratti agli ebrei). Chi sono questi padri? Pasolini non  si risparmia nel coniarne i volti con le caratteristiche dei maiali di Grosz (esplicitamente citato), dagli smodati desideri contenuti nei loro abiti eleganti. Anche Kokoschka, nello stesso periodo, adoperava referenti animali nei suoi dipinti, come in Le rane, allegorie di tutte le dittature e occupazioni militari. L’intento di Pasolini è quello di rendere confusa la valenza del titolo dell’opera in modo da chiederci: Porcile è il sistema corrotto dei padri-porci? Oppure è la condanna dell’individuo  ‘diverso’ che ama i  ‘fenomeni’ vergognosi e irrefrenabili che si verificano nel proprio corpo e ai quali egli non può e non vuole rinunciare? Quello ispezionato è un macro o un micro organismo?

Attraverso Julian  (Antonio Giuseppe Peligra) l’autenticità diviene emblema di un’essenza che è nello stesso tempo condanna e salvezza. Julien non sa amare Ida (Corinne Castelli), ma non sa nemmeno odiarla; non obbedisce al padre (Paolo Calabresi) ma non gli disobbedisce.  Il suo è un eterno stare a metà tra il senso e il non senso e quando confesserà il suo oscuro segreto, ecco che la stessa ragione verrà messa in discussione. E’ uno dei momenti più superbi quello caratterizzato dal dialogo tra Spinoza e Julian, un dialogo in cui l’intera filosofia del grande intellettuale arriva ad una contemplazione: quella di non essere servita a nulla o, per lo meno, di non poter servire a chi non è ancorato a morali e a convenzioni nella società a cui appartiene. Ma profondamente triste è la descrizione della morte di Julian; la crudezza della scena che viene riferita dai contadini che lavorano alle dipendenze del padre; è una crudezza senza limiti, ma che racchiude anche amarezza, incomprensione, perplessità. Una fine, quella di Julian, che fa rabbrividire poiché rievoca inevitabilmente quella che da lì ad alcuni anni sarebbe stata la stessa di Pasolini, autore di una fiaba che, come scrive Massimo Castri, “non deve esplodere e scandalizzare ma implodere e inquietare e ricordare”; uomo vissuto in un mondo in cui, come dice Spinoza a Julian,  Dio non è altro che “Presenza che non consola”.

Sabina Corsaro