Pubblicato il: 25 Agosto, 2007

Strappiamo quel velo…

BurkaTailleur impeccabile e portamento disinvolto: si presenta così lo stereotipo della donna occidentale ai nostri giorni. Sicura di sé, appagata del tutto (o quasi), una donna che è riuscita a compiere grandi passi in avanti sul piano sociale e, più specificamente, in ambito lavorativo; tuttavia, il prototipo presentato, non è universale, poiché non coincide con quello di molte altre realtà geografiche. In alcune parti del mondo raccapriccianti sono le immagini di donne sottomesse, maltrattate, costrette a celare i tratti del loro viso, imprigionate, come sono, in un chador millenario.Agli occhi di chi lotta da sempre con i pregiudizi sociali legati alla discriminazione sessuale, agli occhi di qualsiasi difensore del rispetto umano, la condizione in cui vivono le donne arabe rappresenta una sconfitta.
La battaglia delle donne per le donne trova il suo più grande ostacolo nella loro stessa diversità culturale: mentre le donne europee, americane, lottano quotidianamente per una parità tout court, le donne mussulmane non si ribellano ma vivono le restrizioni loro imposte come condizione divina, assegnata loro da un dio che, nella verità dei fatti, non rispetta la loro persona.
Differenze culturali sfociano lì dove avviene una convivenza tra popoli lontani per modi di vivere. Per quanto possa essere legittimo l’interesse di un popolo a conservare i tratti della propria cultura, qualsiasi civiltà ospitante che si consideri emancipata non può restare impassibile davanti all’ostentazione di una cecità culturale; l’uomo è chiamato al rispetto di tutte le religioni ma a condizione che in ognuna di esse sia garantito e preservato il diritto, per ciascun individuo, ad un’esistenza dignitosa.
Nel valutare il problema della donna afgana, o algerina, non si può prescindere dall’ideologia religiosa di appartenenza: esiste, difatti, un’interazione tra la ‘parola’ islamica e la condizione subordinata delle donne che la osservano. Qualcuno, è vero, potrebbe rivendicare la libertà di scelta delle interessate sostenendo che spetta solo a loro decidere se ribellarsi o meno a quel che è stabilito dal Decalogo.
Ebbene, il lume della cultura,tuttavia, chiama ad una riflessione: una donna può scegliere liberamente di vivere nel buio? Se la donna maomettana non vive come restrizione insopportabile un’esistenza fatta di regole oppressive, di rigidi modelli di comportamento, non è certo per una lucida accettazione. Qualunque essere umano nato libero sa che si può parlare di scelta quando gli è stata data la possibilità di decidere tra vari modi di vivere; la donna mussulmana, da sempre, ne conosce solo uno e non certo per scelta…E’ senza dubbio un problema di prospettiva, poiché anche la civiltà occidentale, agli occhi d’altre culture, presenta degli aspetti discutibili ma sembra palesemente azzardato il tentativo di paragonare al chador islamico l’atteggiamento passivo di quelle ragazze che, mostrando le loro forme, aspirano a titoli di reginette nazionali. Mi dispiace se qualcuno lo abbia avanzato (un giornalista del Corriere della Sera del 1999)ma il paragone non regge. Si rischia, in questo modo, di suscitare l’indignazione delle donne se si confonde la libera scelta di mostrarsi (anche senza veli) con la più abbietta delle costrizioni. Cito anche l’asserzione di una celebre giornalista-scrittrice, qual è Dacia Maraini, che in un articolo dichiarava che nonostante si parlasse d’emancipazione femminile, si continuasse ancora ad ‘avvilire’ il corpo della donna. Potrebbe anche esserci qualcosa di valido dietro quest’estremismo ideologico, tuttavia si rivela incongruente come contrappeso: a prescindere dalla qualità o validità di una scelta (che sia quella di apparire nude o di far emergere le proprie capacità intellettive) un principio inoppugnabile, agli occhi di qualsiasi civiltà, resta quello di ‘essere’ e fino a quando persisteranno i condizionamenti di false ideologie, non si potrà gettar via quel ‘velo’ che ‘avvilisce’ la dignità di ciascuna donna.

Florinda Meli

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