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Sulle orme di Pamuk

Istanbul, Costantinopoli, Bisanzio. Tre nomi per le mille anime che si riflettono nella personalità schizoide. Nomenclature che contraddistinguono questa metropoli, che la animano con il perenne traffico di auto, il viavai dei turisti, le trattative sfiancanti nel Gran Bazar e nei suoi negozi. Dove tutto è trattabile, al di fuori della storia. Camposanto di minareti fantasmi, delle moschee astronavi che si illuminano la sera, dei vicoli labirinto, dei gatti, degli edifici fatiscenti in legno che si consumano inesorabilmente Istanbul è la città della contraddizione. Troppo araba per l’occidente, troppo occidentale per il mondo arabo, troppo diversa nei suoi quartieri per essere se stessa. Opulenza tra rovine di palazzi e case decrepite.

Il lascito della decadenza di una tradizione corrosa dalla modernizzazione tradotta nel kitsch turistico e replicato in un’infinità di feticci: le spezie, il narghilè, il kebab. Costretta a giacere recumbante sul Bosforo, divisa tra la sua parte asiatica e quella occidentale, dove si consuma il sottile gioco del PIL. Ogni traghetto è una cerniera che si apre e si richiude, una cicatrice che si apre e difficilmente si rimargina. A suo modo è una città che sanguina. È un fascino decadente il suo, anche se per molti turisti Istanbul è la blu Sulthanamet. Ma sarebbe come parlare del cielo di Istanbul dall’interno dei corridoi del bazar, formicaio orfico di sogni e meraviglie che si apre in mille caverne di Alì Babà. Il tempo sembra non scorrere mai, ci si perde all’infinito ruotando come dervisci sul quadrante di uno di quegli orologio pacchiani che ti vendono a poco prezzo per strada. È una città che non vuole dimenticare e che chiede di non essere dimenticata, a volte con la gentilezza dei gesti inattesi di chi ti accompagna per centinaia di metri, a volte con l’irruenza rugbista dei suoi ristoratori.

Paradossalmente è una città che dimentica i suoi figli, vedi Pamuk. Non occorrono facili giudizi per compiangere la sua crisi di identità. Occorre pazienza, la bellezza di un tè, dei racconti di questi rapporti infranti e fragili nascosti dietro la sua chiara bellezza monumentale. A modi Matrix: pillola blu – quello degli occhi della fortuna, che è bendata e al turista è bene far vedere solo alcune cose – ti svegli domani e non ti ricorderai nulla. Pillola rossa – la bandiera e la fierezza dei suoi abitanti – scopri quanto è profonda la tana del Bianconiglio, quindi il fascino discreto del sobborgo, dei villaggi appollaiati lungo le rive del Bosforo da Ortakoy a Eyup.  Occorre osservarla dal di fuori, forse non è abbastanza nemmeno voltarsi da Üsküdar, ma occorre davvero arrivare ad Anadolu Kavagi ed osservarla dal promontorio delle rovine delle fortezza sul Bosforo. È una città che sa ammaliare, ingannare, raggirare e darsi disinteressatamente. Girovagare: a volte si ruota e si è vicini a Dio come per il sufismo. A volte si ruota solo come carne su un chawarma.

Luca Colnaghi