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Sybil

Sybil ha grandi occhi scuri e lo sguardo cupo; spesso lo sguardo di Sybil si perde nel vuoto, rinsavisce, controlla l’orologio. Sono passate ore intere, la sua camera è in disordine, la sua mano sanguina; si è procurata dei tagli rompendo una finestra. Però non sa quando è successo, non sa perché o come, non ricorda nulla, come se non avesse mai vissuto parte del suo tempo. Sybil (Sally Field) non conosce se stessa, perché in lei convivono più di 13 personalità. Solo con l’impegno e la dedizione della dottoressa Wilbur (Joanne Woodward) e con anni di psicoterapia e  difficoltose sedute di ipnosi la giovane riuscirà a superare l’angoscia della propria condizione e ad incollare tutti i frammenti di se stessa. Ciò che colpisce maggiormente in questo film (originariamente destinato ad essere una mini-serie televisiva) di Daniel Petrie del 1976 è innanzitutto la straordinaria prova di recitazione sostenuta da Sally Field: la sua voce, i suoi gesti, la sua fisionomia cambiano improvvisamente, ognuna delle personalità di Sybil emerge e scompare con naturalezza, la Field non si risparmia nemmeno per un minuto e trascina con se lo spettatore  nel baratro di pura angoscia, nei meandri del disturbo psichico. Lo sguardo confuso e triste di Sybil lascia spesso il posto a quello esaltato e spaventato di Peggy, la personalità-bambina spaventata dalle “persone”, l’incarnazione dell’orrendo trauma subito durante l’infanzia; oppure, a quello spavaldo e frivolo di Vicky, la personalità civettuola e socievole, l’unica capace di interagire e colloquiare agevolmente con l’esterno -a cause del suo disturbo, infatti, si rivelerà impossibile, per Sybil, intrattenere una relazione sentimentale; o ancora, allo sguardo vuoto e depresso di Marcia, la personalità che, in qualche modo consapevole della propria condizione, tenta più volte il suicidio. Ma gli alter-ego di Sybil sono anche capaci di cose meravigliose: suonare il piano, dipingere, cantare; il caso di questa ragazza (ispirato ad un caso realmente accaduto) è affascinante, e non a caso alla dottoressa Wibur verrà consigliato: “Non innamorarti della sua malattia, altrimenti potrebbe sentirsi obbligata ad apparire più complessa di quanto non sia realmente”.

Il film procede, lento e angoscioso, scandito da agghiaccianti flashback che rivelano le origni del trauma di Syibil e da allucinazioni e sogni della ragazza; tra le scene di maggiore impatto, le disturbanti sequenze delle torture subite da Sybil durante l’infanzia e la riconciliazione finale con tutte le proprie personalità, l’abbraccio degli alter-ego terrorizzante ma necessario. Nonostante l’intensa drammaticità del film, il finale apre uno spiraglio di luce e di speranza: dopo 11 anni di analisi, Sybil impara a riunire in un unico sé tutti i propri frammenti e a condurre una vita normale, a vivere finalmente tutto il proprio tempo.

Ornella Balsamo