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Vinicio Capossela, l’ultimo clown…

Un tempo ridevo soltanto a veder l’incanto di noi vestiti di piume e balocchi con bocche a soffietto e rossetto negli occhi” (dalla canzone “I pagliacci”)Un mondo fatto di circhi e pagliacci quello di Capossela. Nel 1970 Jean Starobinski ci illustrava nel suo bellissimo saggio (“Ritratto dell’artista da saltimbanco”) la figura del clown e del saltimbanco. Attraverso quasi due secoli di storia venivano evocati simboli, personaggi, artisti, letterati, ecc. che in qualche modo erano da ricondurre a questa condizione. Un clown che poteva essere leggero o pesante (del tipo mercuriale o della terra) e, dopo l’opera di Baudelaire, tragico e vittima. Ma per il critico svizzero il clown è anche un Arlecchino trasgressore, sostituto del diavolo, un demone dal volto animalesco. La figura del saltimbanco insomma vive di queste contraddizioni, e può balzare da un estremo all’altro. Tutto ciò emerge nell’opera di Vinicio Capossela. Egli è l’esempio del clown leggero, quando ci canta a squarcia gola il ritornello de “L’uomo vivo”, ma è pronto a diventare malinconico e pesante quando suona le note di “Bardamù”.

In Capossela, il buffone tragico, è pura poesia. Figure di questo tipo, da Jack La Motta a Cristo stesso, assumono un valore emblematico della condizione dell’uomo e della sua “stramba” esistenza. Nei loro personaggi vengono racchiusi una serie di sentimenti e vicende in bilico tra la vita e la morte. Proprio come alcuni esempi di clown che ci descrive Starobinski. Per di più, nei suoi concerti non è raro osservare incantati gli spettacoli circensi di un giocoliere in carne e ossa, accompagnati sempre da intermezzi pagliacceschi di Capossela stesso. Non bisogna dimenticare inoltre che il cantautore spesso canta “Brucia troia” indossando la maschera di un Minotauro, che richiama appunto l’archetipo di Arlecchino, un diavolo dal volto animalesco… Capossela quindi continua una via percorsa da numerosi maestri della cultura italiana. Basti pensare al giullare De Andre’ o, spostandoci nel campo del teatro, al premio nobel Dario Fo. Bisognerebbe chiedersi quindi cosa spinga molti artisti a calarsi nella maschera del buffone e quale sia il vero significato di tale scelta. E inoltre: è sempre consapevole?

Ma forse è meglio seguire il consiglio di Starobinski: “non ci si affretti troppo, quindi, ad assegnar loro un ruolo, una funzione, un senso; bisognerà lasciarli liberi di esser null’altro che un gioco insensato.” (J.S., Ritratto dell’artista da saltimbanco, Bollati Boringhieri, Torino 2002)

Benito Lopez