Pubblicato il: 3 Aprile, 2009

A volte vince la tv di qualità

tv-di-qualitaSecondo molti intellettuali, tra i quali Pasolini e Godard, la televisione è lo strumento con il quale il potere diffonde e impone un determinato stile di vita e un conformismo sempre più diffuso. Se aggiungiamo che la tv è anche il sistema principale per invogliare al consumo e diffondere la pubblicità rendendo il cittadino passivo e indurlo a rinunciare alle sua facoltà di giudizio e decisione, possiamo a ben ragione concludere che il mezzo televisivo sia il “male del secolo”. Tuttavia, a volte capita che la televisione, se usata con uno scopo educativo reale e senza secondi fini, si riveli un meraviglioso veicolo di verità e cultura. È questo il caso di alcuni programmi a contenuto culturale, tra i quali l’esempio migliore è forse “Che tempo che fa”, condotto da Fabio Fazio. Mercoledì venticinque marzo raitre ha proposto una bellissima puntata speciale di questo programma, che ha incollato al teleschermo circa quattro milioni e mezzo di telespettatori, nella quale l’ospite principale era lo scrittore di “Gomorra” Roberto Saviano. Questo coraggiosissimo ragazzo ci ha insegnato moltissime cose sulla Camorra; inizialmente ha parlato del modo di scrivere e di diffondere le notizie prevalente nei giornali del Sud Italia. È emerso allora uno spaventoso ritratto della carta stampata italiana: i boss, anziché essere esecrati e condannati sui giornali, vengono trattati con riverenza e quasi come i protagonisti di storie poliziesche d’altri tempi, degne della passione del pubblico. La scelta di Saviano di mettere i giornali al centro della sua “lezione” è stata azzeccatissima; in questo modo abbiamo potuto constatare come la Camorra non sia solo un manipolo più o meno grande di uomini senza ritegno per la vita umana, ma anche e soprattutto sia il frutto di una mentalità diffusa nella popolazione, fondata sull’omertà e sull’ignoranza. Coloro i quali cercano di far luce sui mali della propria terra, vengono accusati di arricchirsi su menzogne che danneggiano l’immagine dei luoghi interessati e dei loro abitanti. Dopo questa prima parte, Saviano ha ricordato alcuni uomini che sono stati uccisi dalla Camorra, in virtù della loro strenua opposizione ad essa. Infine, sono intervenuti Paul Auster e David Grossman, i quali hanno amabilmente colloquiato con Saviano e Fabio Fazio di verità, cultura, coraggio e letteratura. Ne è uscita una fantastica serata. Una meravigliosa prova di come la televisione possa ancora essere un veicolo di civiltà, se utilizzata in buona fede a questo scopo. Dobbiamo ringraziare Roberto Saviano. Questo giovane meridionale, di fronte ai drammi e ai soprusi, non è riuscito a stare zitto. Qualcosa, più forte di lui, gli ha guidato la mano nello scrivere “Gomorra”; un anelito di verità e giustizia più forte anche della paura delle possibili ritorsioni dei boss, che lo costringono a vivere segregato e scortato, senza più uno straccio di vita privata e sotto la perenne scure della paura.

Pierfrancesco Celentano

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  1. Gian Maria Turi ha detto:

    Roberto Saviano, bontà sua, ha raccontato agli italiani la storia sconvolgente dell’esistenza della Camorra, della terra in cui affonda le radici e dei suoi tentacoli imprenditoriali transnazionali. Benissimo. Nel 1975 (!), nella relazione di minoranza della commissione antimafia, fu scritto: “Come la mafia si trasferì negli Stati Uniti con l’ondata emigratoria, così è avvenuto con il suo trasferimento a Nord, favorito anche dai soggiorni obbligati. Ma la “centrale”, non solo in termini “ideali” o di tradizioni, ma di terreno di continua riproduzione, rimane la Sicilia. Ciò non esclude che lo strato superiore, lo “stato maggiore”, si distribuisca fra la Sicilia, il Nord e perfino Paesi stranieri, e sia ricco di enormi mezzi finanziari, incrementato, particolarmente negli ultimi anni, con traffico di droga e con i sequestri, e quindi di grandi possibilità di spostamenti e di collegamenti.” (cfr. Aurelio Lepre, Storia della prima repubblica, Bologna 2006, p. 331) Fatti i dovuti aggiustamenti alle nomenclature, sembra proprio la descrizione di un quartierino di Gomorra.

    A che pro questo richiamo, come dire, erudito? Conosciamo infatti tutti la storia della Mafia. Ma allora qual è il punto del grande successo del libro Gomorra? Forse ci ha ricordato qualcosa di cui, ops, ci si eravamo dimenticati? Forse ci ha detto che non c’è solo la Mafia ma anche la Camorra? E allora ci stupiremo anche davanti al prossimo giornalista o giudice che ci dirà le stesse cose della ‘Ndrangheta, quando sarà il suo turno? O forse ci sta dicendo che la malavita è diventata ormai cultura? Giovanni Falcone ebbe a dire (cito a memoria): “La Mafia è una cosa umana e, come tutte le cose umane, ha avuto un inizio e avrà una fine”. Vero. Ma tutti sappiamo che non è così. Potrà finire il nome della Mafia e potranno avere termine, come è già successo più volte, certe sue strategie, ma ciò che è alla radice del fenomeno mafioso non è estirpabile, perché è parte della natura umana, comunque lo si chiami: pirateria, brigantaggio, capitalismo deregolato, ecc. È il predatore che prende senza chiedere il permesso, come è nella natura delle cose. Cosa fa allora la società perbene davanti a quel mostro che riconosce, teme, invidia e rinnega? Lo sublima. Cioè, lo astrae per gradi dalla sua realtà reale e gli dà una forma altra, di intrattenimento (categoria in cui ricade ormai, purtroppo, anche l’informazione). Autori e titoli sono sotto gli occhi di tutti, da Il padrino ai Soprano a Gomorra.

    Sulla collettività questo implica però una certa assuefazione al male – il male non come categoria metafisica ma sociale. Ogni generazione deve fare i conti con il male che la pregna, il quale è sempre un po’ diverso da quello della generazione precedente. E siccome l’arte ha anche il pallino del nuovo, le nuove rappresentazioni del male dovranno essere sempre diverse e adatte allo spirito dei tempi, in pratica sempre più realiste, più ciniche e più crudeli. Basta prendere un telefilm come Starsky e Hutch e uno come Nip Tuck. La differenza salta agli occhi: quelli erano due sbirri con anime da mocciosi, questi sono due nazisti che giocano a fare i chirurgi.

    Per concludere: del male sociale sappiamo tutto tutti, e chi non lo sa o è al manicomio o sta per finirci. Le rappresentazioni letterarie e cinematografiche delle malavite organizzate non servono – purtroppo! – al risveglio delle coscienze, ma solo al loro progressivo adattamento all’esistenza dominante di quel tipo di associazioni. Non parlo di intorpidimento delle coscienze: la sublimazione del male è il solo modo di entrarci in relazione che non sia il conflitto. E siccome del conflitto dovrebbero farsi carico gli organi istituzionali, alla gente comune e agli artisti non resta che sublimare. La letteratura e il cinema non sono il luogo deputato alla risoluzione di un problema sociale tanto estremo come quello delle mafie transnazionali e delle loro collusioni con la politica, anche se sono in grado di far saltare le zampette a un paese ormai in rigor mortis. Quando gli organi competenti di governo latitano (e in Italia questo è di prammatica, fatti salvi i trascinanti eroismi individuali) allora non resta che consolarsi guardando lo show del paladino Roberto a Che tempo che fa o magari rivedersi Marlon Brando che dice: “I’m gonna make him an offer he can’t refuse”. E questo principio d’affari la Mafia e la Camorra lo conosco bene: ogni cosa ha un suo prezzo, anche la tolleranza di un paese.

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