Pubblicato il: 22 Settembre, 2010

Andrea Miccichè: “Luglio ’60? Fu Guerra civile strisciante”

“Non più proponibile la formula originaria e totalitaria, era ancora praticabile il ricorso a un autoritarismo conservatore, sul modello del franchismo spagnolo”. Così scrive Rosario Mangiameli, docente di Storia contemporanea, nella prefazione al bel libro di Andrea Miccichè, “Catania, luglio ‘60”. Ci si è chiesti: perché non portare questa tesi alle estreme conseguenze, mettendo a dura prova la pazienza di Miccichè, che di Storia contemporanea è un giovane e bravissimo studioso?

Cosa ha impedito di adottare anche in Italia una soluzione che in Spagna era già in atto e che presto si sarebbe realizzata in Grecia?

Su un simile tentativo non abbiamo riscontri. E’ certo che Tambroni prova l’apertura a forze che fino a quel momento erano state tenute ai margini dell’area di governo. Il MSI aveva già votato a favore di esecutivi centristi, spesso in modo decisivo. La novità consisteva nel suo stabile inserimento all’interno della maggioranza e nella legittimazione a una chiara provocazione: la scelta di Genova quale sede per il suo VI Congresso.

E l’ipotesi di messa fuori legge dei partiti di sinistra?

Un’ipotesi realistica e del tutto concepibile nel mondo della Guerra fredda. Ma in quel momento la posta in gioco era piuttosto la legittimazione della repressione. Si trattava di una gestione dell’ordine pubblico che andava ben al di là dei limiti e delle garanzie di una democrazia liberale. Non era la prima volta che si sparava sulla folla. L’elemento eccezionale è che si svolgono delle manifestazioni di piazza in un momento politico dai risvolti imprevedibili. Che in questo contesto la polizia spara e uccide e, soprattutto, che nell’arco di tre giorni continuerà a sparare e a uccidere.

Un Presidente della Repubblica, Gronchi, che si espone con una prassi anomala. Tambroni che si appella ai cittadini sopra e contro i partiti. Proprio non si può parlare di prova del budino per soluzioni di tipo autoritario?

Attribuire alla DC progetti di tipo eversivo lo trovo riduttivo. Quel partito era spaccato perché una parte era favorevole all’apertura ai socialisti. Su questo c’erano forti resistenze. E qui entra in gioco un’altra opzione: la possibilità di legittimare una formula di governo di centrodestra. L’idea era di porre fine all’isolamento del MSI, trasformandolo in una forza organicamente di governo. Il confronto tra queste linee antitetiche si gioca all’interno di una forza costituzionale come la DC.

Il ruolo della stampa nel fomentare tensioni: le ricostruzioni erano false?

Erano in gran parte veritiere. L’elemento critico sta nella diffusione di notizie non confermate, pur con relativa postilla. Penso al riferimento de “Il Corriere di Sicilia” al lancio di bombe a mano da parte dei manifestanti: un resoconto in questo caso non veritiero che, per quanto esplicitamente “non confermato”, mette in circolo un elemento di grave impatto emotivo. Poi c’è il registro lessicale: è un linguaggio cruento che tende a restituire ai lettori sensazioni che vanno ben al di là della sostanza dei fatti. Il risultato si può ben definire di guerra civile strisciante.

E’ nel ’60 che comincia ad accumularsi il ritardo della sinistra catanese nel proporre un modello di sviluppo diverso da quello fondato sull’espansione edilizia?

La sinistra etnea aveva un retroterra contadino. Nelle lotte bracciantili aveva costruito la propria legittimazione, la propria identità. In città arrancava e, allora come oggi, il suo insediamento elettorale era localizzato nel Calatino e nella fascia a nord dell’Etna. La zona jonica era dominata dalla piccola proprietà contadina, i cui detentori erano in larga maggioranza elettori della Democrazia Cristiana. Da allora, la sinistra e la CGIL incontrarono notevoli difficoltà di radicamento fra il nuovo ceto medio urbano.

Enrico Sciuto

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