Pubblicato il: 6 Novembre, 2008

In limine: Aspettando Godot

En attendant Godot: questo il titolo originale dell’opera probabilmente più conosciuta di Samuel Beckett; opera di cui ci apprestiamo a dare un giudizio che sicuramente non ha la pretesa di essere esaustivo, né di offrire il giusto spazio ai molti spunti di riflessione che un’opera drammaturgica così importante e di ampio respiro propone. A cominciare dal titolo stesso: Beckett decide utilmente di scrivere la sua opera in francese come lingua originale, riuscendo magistralmente nell’impresa letterariamente arditissima di costruire tra sé e il proprio scritto una certa distanza autoriale, la quale gli permette una sorta di selezione lessicale e di progetto di costruzione sintattica, estremamente rigoroso nella sua elementarità. Vladimiro ed Estragone si trovano in un luogo che non è luogo, e lo spazio fisico entro il quale si svolgono le loro azioni è caratterizzato solamente dalla presenza di un albero, e della luna in cielo, che scandisce in maniera secca il procedere della sera verso la notte nei due atti, molto simili, di cui si compone il testo. Volendo attenerci, peraltro in maniera piuttosto semplificata, ad un’analisi attanziale, possiamo dire che i due personaggi hanno un solo obiettivo, che costituisce anche l’orizzonte principale del testo: passare il tempo.

Tralasciando le possibili interpretazioni metaforiche e variamente generate dalle opportunità che Beckett con il suo prodotto drammaturgico ci offre, è opportuno ricordare che questo obiettivo dei due protagonisti viene perseguito soprattutto attraverso una conversazione-attesa che tocca gli argomenti più svariati, attraversando i confini tra serio e faceto, appoggiandosi spesso all’invenzione di sospensioni silenziose di grande pregnanza. Significativa è la struttura dell’opera: due atti che sembrano ripercorrersi l’un l’altro, citarsi a vicenda in continuazione, instaurando così un gioco di specchi che punta all’affermazione di una esistenza che si compie nei modi di una singolarissima espiazione come quella descritta. Qualche cenno merita certamente il linguaggio, che in Beckett deflagra in “duetti linguistici” di spiazzante immediatezza, alternati a improvvise accelerazioni liriche.

La parola è “faticosa”, ma allo stesso tempo è l’unico aiuto valido per andare al di là del tempo e dell’attesa infinita che condanna i due protagonisti in uno spazio liminale e al tempo stesso teatrale, nella misura in cui il loro spettacolo può non finire mai, essendo la vita stessa. Ogni battuta è strettamente legata alla successiva e alla precedente, e probabilmente ad ogni altra del testo; come accennavamo prima, in un gioco di rimandi che ha del miracoloso. In conclusione, non resta altro da dire se non che ogni tentativo di giudizio su un testo teatrale come quello in esame, può essere allo stesso tempo illuminante e perfettamente inutile, laddove Beckett ci ha consegnato una pietra miliare della storia della letteratura, quasi un mistero senza soluzione, il risultato di un fortunato esperimento alchemico trasformante la presenza in assenza e viceversa.

Alessandro Puglisi

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