Bixio e i suoi fratelli
«Ma noi lo vediamo, oscuro conquistatore di fama, strapparsi dalle braccia di un amore esclusivo al cenno, al richiamo del suo esaltato egoismo. Si stacca da una donna viva per celebrare le sue spietate nozze con un vago ideale di condotta. (…) Chissà? Se ne è andato, imperscrutabile nel cuore…», e così via, in una pagina memorabile che non è di Massimo Nava ma di Joseph Conrad, e non è Bixio che evoca ma l’ombra malinconica e ammaliante di Lord Jim, col suo carico romantico di predestinazione alla sconfitta, col suo profilo di avventuriero gravato da un’oscura voglia di perdersi, dalla autopunitiva coazione a rimettersi in gioco, a ricominciare ma forse solo per finire, per arrendersi finalmente a un inclemente ma irrevocabile destino.
Perché, allora, questa citazione? Perché Lord Jim? Perché il Nino Bixio che Nava ci restituisce è anche lui un avventuriero triste e imperscrutabile, perché anche lui come Lord Jim (ma nella realtà effettuale di una vita sdegnosamente bruciata) finì la sua avventura nei mari del Sud, perché Massimo Nava è il suo Marlow, il grande evocatore e affabulatore di cui Conrad si serviva per dar corpo ai suoi sogni e veste di personaggi alle sue ossessioni. Ma per l’appunto con una differenza di fondo: Nava non inventa, non sogna, al contrario si documenta con lo scrupolo dei grandi romanzieri ottocenteschi ed è perciò un’autentica e documentata biografia che ci offre, remotissima dalle celebrazioni agiografiche post-unitarie alla Giuseppe Cesare Abba così come dalle altrettanto discutibili demonizzazioni post-sessantottesche dell’inflessibile e iracondo sodale di Garibaldi.
E già, perché a parlare come oggi facciamo di Bixio qui in Sicilia, nonostante Bronte, nonostante il Verga di Libertà e soprattutto il film di Vancini e le sedicenti controstorie d’Italia che l’hanno accompagnato, ci vuole una buona dose di coraggio. E tuttavia non è di ribaltare quelle controstorie e quei Risorgimenti traditi o traditori che Nava si preoccupa, magari riabilitando in Bixio il soldato fedele ai princìpi fino all’abnegazione e perciò anche alla cieca caparbietà. No: Nava salta a pie’ pari il Bixio già noto, il Bixio del Risorgimento, il Bixio garibaldino e poi parlamentare, il Bixio di Abba e degli agiografi, e ci rivela invece un’intera vita di azzardi, avventure, sconfitte e ossessioni di cui quegli episodi consacrati non sono che alcune delle innumerevoli epifanie – ma che per ciò stesso illuminano quegli episodi controversi alla luce di una personalità finalmente restituitaci nella totalità dei suoi impulsi, dei suoi travagli, perfino (per dirla con Freud) del suo “romanzo familiare”.
Già, perché quello di Nava è anche un romanzo familiare. E non è solo di Nino Bixio che parla, ma di tre fratelli e delle loro storie drammaticamente divergenti, e tutte a loro modo affascinanti. Tre romanzi in uno, dunque: e oltre a quello di Nino, quello francese di Alexandre, giornalista (tra i padri, fra l’altro, della “Revue des deux mondes”!), scienziato, finanziere, politico e perfino ministro del pur odiato Napoleone III, e quello americano del gesuita Joseph, autentico frontiersman in virtù di quello straordinario mimetismo che aveva travestito i suoi confratelli da samurai in Giappone e da mandarini in Cina. Un’avventura anche questa del sacerdote, pur così distante dai furori anticlericali di Nino e Alexandre: familiare delle tribù dei nativi d’America, spericolato incursore e spia sudista nella guerra di secessione, agli sfondi alla Emile Zola delle gesta di Alexandre fa seguire scenari alla Fenimore Cooper se non addirittura alla Faulkner.
Tre destini divergenti e incompatibili, ma tutti perseguiti con cieca determinazione, sempre alla ricerca d’un limite da valicare: come quello che alla fine condurrà il generale – e parlamentare! – Nino Bixio a sfidare la natura matrigna e le popolazioni selvagge dei mari del Sud. E un romanzo polifonico e cosmopolita, che attraversa tutte le latitudini e che forse solo un inviato (e perciò avventuriero anche lui) come il giornalista Massimo Nava poteva concepire. E un’idea della storia come fortuito incrocio di destini segnati, di oscure predestinazioni, di pene che accomunano più degli schieramenti e delle bandiere.
Come accade a Batavia, l’odierna Giacarta, ai disparati e disperati compagni dell’ultima avventura di Bixio: «Era un piccolo ricettacolo di amarezze subìte e improbabili nuove vite, un campionario di sconfitte e paure. Era un numero, uno di cui la Storia non fa cenno, salvo moltiplicarlo nell’immenso cimitero anonimo delle vittime. Un numero, uno dei tanti in fila sul porto di Batavia a sfidare la stessa morte dopo essere stati su fronti opposti, sotto un cielo qualsiasi. Nemici e bastardi di ieri erano i commilitoni e mercenari di oggi. Contadini del Sud con l’uniforme del regno borbonico, contadini del Nord con la camicia rossa, bosniaci contro italiani, condannati da Napoleone, graziati da Francesco Giuseppe, carni straziate e teste per il boia, camerieri di sante alleanze, esecutori innocenti, cecchini al servizio degli Stati e dei regni. Ieri tutti impegnati a sbranarsi come bestie chiuse nella stessa tana, la trincea, e adesso tutti insieme a cominciare un’altra caccia all’uomo. Bianco, nero, indio, austriaco, sudista, francese, piemontese…».
Alla fine del “folle volo” ulissiaco, la morte cercata e finalmente giusta: «La disperazione fu la sua risacca. Avrebbe potuto diventare un politico, un uomo d’affari come Alexandre, o un povero pensionato circondato da figli e nipoti. Preferì diventare se stesso». Viene in mente Mallarmé sul tombeau di Poe: «Tel qu’en lui-même enfin l’étérnité le change», quale in lui stesso infine l’eternità lo muta. Bixio, dunque, finalmente restituito a se stesso. Una tomba vuota nei mari del Sud. E un romanzo che finalmente la riempie.
Antonio Di Grado