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Il carcere italiano: punitivo o rieducativo?

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. In Italia non è ammessa la pena di morte”.

Lo dice il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione Italiana [1], scritta da uomini che hanno conosciuto il carcere della dittatura fascista, dittatura dove alcuni, come Antonio Gramsci, hanno perso la vita.
Prima della legge di riforma del 1975 la condanna era immodificabile, salvo casi eccezionali (la grazia e la liberazione condizionale erano gli unici istituti che potevano modificare la durata della pena inflitta). Solo a partire dalla legge n. 354  si decide che la durata della pena  può essere modificata e persino decurtata per effetto dei comportamenti del condannato orientati all’obiettivo del recupero.
Nel 1904 Filippo Turati [2] (esponente del partito socialista) tenne  un discorso alla Camera dei Deputati in cui disse:  “Noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal Codice Penale comune, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori“. Non possiamo che rilevare la sconcertante attualità di queste asserzioni.
Se parliamo di carceri, di Giustizia e di procedure penali, non possiamo non considerarli tasti dolenti del sistema italiano e la lista degli esempi è troppo lunga per essere riportata in questo articolo in modo sintetico, basta solo dire che le carceri italiane rispecchiano la natura di un sistema giuridico fondamentalmente contraddittorio e debole. I giornalisti o i politici che, dietro l’approvazione di commissioni di inchiesta, hanno avuto modo di visitare le carceri del nostro paese, hanno provato vergogna per le condizioni in cui questi luoghi di ‘rieducazione’ si trovano. La natura rieducativa che viene attribuita ai luoghi di detenzione è rinforzata dalla consapevolezza della sterilità del carcere duro, fine a sé stesso. Il soggetto che commette un errore (più o meno grave) non smetterà di compierne altri solo perché avrà avuto una punizione esemplare. Se fosse così allora non si spiega perché negli stati in cui vige e si applica la pena di morte continuino ancora a compiersi omicidi. Così nasce un interrogativo: l’individuo che devia, in proporzione al reato commesso, deve essere rieducato per una reintegrazione nella società oppure subire una rigida punizione, che non si propone di migliorare la persona, ma solo di intimorirla? Insieme a questa domanda, un’altra ne nasce spontanea: le misure sociali (o l’alternativa al carcere con il servizio di utilità sociale) hanno più efficacia in alcuni specifici casi? Si consideri che spesso nelle celle sovraffollate scontano una pena anche i tossicodipendenti (circa il 30% dei detenuti) e persone con disturbi psichici. Se un luogo appropriato per questi soggetti è necessario, il dubbio che possa trattarsi di un carcere è forte. I disagi psichici e la tossicodipendenza sono malattie da curare in istituti riabilitativi o aspetti da punire con una condanna? In Italia, in tal senso, c’è solo una gran confusione, rinforzata inoltre dalla facilità con cui individui colpevoli di gravi reati contro la persona (omicidi premeditati, abusi, violenze varie) riescono a cavarsela con meno di 4 anni (quando non sono del tutto assolti). Ma del resto cosa pretendiamo da un paese in cui gli abusi sessuali perpetrati da alcuni esponenti della Chiesa restano ancora impuniti?

Sabina Corsaro