[Serie Delitti] Caso Annarella Bracci (prima parte)
La sera del 18 febbraio 1950, una tredicenne, Anna Maria Bracci (detta Annarella), residente nella borgata di “Primavalle”, venne incaricata dalla madre di effettuare alcune commissioni per la cena, così intorno alle 19:30 la ragazzina procedette per il solito giro tra vicinato e botteghe, salvo il fatto che non rincasò mai più.
Il caso
Agli inizi del 1950 anni l’Italia viveva un periodo di ricostruzione. Il paese era uscito da poco dalle macerie della Seconda guerra mondiale, così ci si adoperava, lentamente, a ricostruire una dignità perduta nell’attesa del boom economico che seguirà con il mercato edilizio degli anni ’60. Teatro della vicenda di cronaca nera fu la borgata “Primavalle”, una zona periferica di Roma, molto degradata, lasciata al proprio destino, nonostante gli ingenti investimenti spesi per il rilancio dell’economia capitolina. I fatti ruotano intorno a due date fondamentali. il 3 marzo 1950, in una zona poco distante da “Primavalle”, nelle campagne di Torrevecchia (località oggi facente capo a via “ La Nebbia”) venne ripescato, dai fondali di un pozzo utilizzato per l’irrigazione, il corpo privo di vita di una ragazzina. La giovane vittima presentava diverse ferite alla testa, procurate probabilmente da un oggetto contundente ed era priva di biancheria intima. Purtroppo, fu chiaro sin da subito, si trattava proprio di Annarella Bracci. Successivamente all’apertura delle indagini dall’autopsia emersero fatti inquietanti. La vicenda fu ricostruita in questo modo: Annarella aveva lottato contro un tentativo di stupro ed era riuscita a divincolarsi dal proprio aggressore, fuggendo. Questi, arrabbiato dal rifiuto la raggiunse e la colpì in testa, diverse volte, con un’arma appuntita (furono formulate diverse ipotesi ma dell’arma non si ebbe traccia). La ragazzina svenne per le percosse e l’assassino credendola morta la gettò in fondo al pozzo (a pochi passi dal luogo dell’aggressione). Annarella non morì sul colpo, annegò lentamente, per la mancanza di forze causata dall’aggressione subita. Questo si evinse sempre dall’autopsia che evidenziò la presenza di “petecchie emorragiche” che avevano interessato i polmoni, tipico segnale dell’asfissia violenta determinata dall’annegamento. Inoltre, si poté risalire all’ora del decesso: intorno alle 23-23:30 di quel 18 febbraio, di cui sopra, proprio quando la tredicenne non fece più ritorno a casa. Dunque, come riuscirono le forze dell’ordine, che brancolavano nel buio, a puntare direttamente in quella determinata zona, trascurata sin da subito e senza nessun legame con le abitudini della vittima?
CONTINUA…
Girolamo Ferlito