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District 9

Sopra i tetti di Johannesburg aleggia una grande astronave piena di alieni simili a grandi gamberoni. Dal loro arrivo, negli anni ’80, in città è stato creato una sorta di ghetto, il distretto 9, un luogo dove questi esseri vivono in completa anarchia. Di tanto in tanto, fanno qualche incursione in città per rubare qualsiasi cosa gli capiti. Ma è arrivato il tempo di traslocare. Gli umani hanno creato un nuovo distretto, quasi un campo di concentramento, per tenere lontani gli alieni. La Multi-National United (MNU) si deve occupare dello sfratto ed in particolare Wikus Van De Merwe, marito della figlia del capo di MNU, appena nominato responsabile del progetto. Tutto funziona perfettamente fino a quando Wikus non viene a contatto con un fluido alieno che inizierà a trasformarlo in uno di loro. Per lui sarà una via di non ritorno.

“District 9” è l’opera prima del regista sudafricano Neill Blomkamp, che, prima di essere un regista,  è un tecnico degli effetti visivi, e si vede. Blomkamp mostra a pieno di aver colto la nuova sfida del linguaggio cinematografico. Fonde infatti video ad alta tecnologia a video amatoriali, grandi effetti speciali a video fatti dal cellulare. È una commistione di linguaggi audiovisuali, che rendono il film adatto agli stimoli che siamo ormai abituati a ricevere quotidianamente. “District 9” si configura come una sorta di documentario, con interviste postume, e con tutta una serie di flashback e flashforward, che rendono la storia più reale.

Metafora del racconto è la segregazione razziale, la divisione tra gli alieni, gli immigrati, e gli umani, che tentano di circoscriverli ed allontanarli. In realtà, come spesso accade, i buoni apparenti non lo sono, mentre sono gli alieni, brutti come sono, a dover subire ingiustamente le angherie dei falsi buoni. Un po’ come accade oggi, quando gli immigrati sbarcano nei cosiddetti “paesi civilizzati”.

Diego Bonomo