Godard, la libertà e il nulla
Siamo nel 1960 in Francia. Un modo completamente nuovo di fare cinema emerge da un gruppo di registi che si prefigge di rompere gli schemi dell’establishment hollywoodiano, creando opere che ribaltino radicalmente i metodi estetici classici sotto ogni punto di vista. Contro il cinema piattamente commerciale occorre una nuova ondata di innovazione, una Nouvelle Vague (come venne immediatamente battezzato il movimento) che infranga le regole dettate dal sistema cinematografico statunitense che, in nome di un successo garantito dall’utilizzo di metodi e contenuti collaudati, non lascia ormai alcun spazio alla creatività del regista. Proprio in questo anno cruciale per la Storia del Cinema, il 1960, Jean-Luc Godard presenta al mondo intero la sua opera prima, Fino all’ultimo respiro. Basato su un soggetto di Truffaut, altro importante cineasta del periodo, A bout de souffle (titolo originale) è il manifesto per eccellenza di questo nuovo corso del cinema francese. Interpretato dal bravissimo Jean-Paul Belmondo e dall’ eterea Jean Seberg, il film è la storia di Michel, ladro d’auto e assassino, che progetta di fuggire in Italia perché braccato dalla polizia. Prima di partire Michel decide di andare a Parigi per convincere Patricia, una studentessa americana di cui è innamorato, a fuggire con lui. Per amore, Patricia, decide di denunciarlo per costringerlo a scappare. Il soggetto è, per volontà del regista, scarno ed essenziale, come a sottolineare la poca importanza dell’intreccio narrativo. Sono altri gli aspetti che Godard si prefigge di espletare. Il messaggio filmico scaturisce dalle tecniche di messa in scena che rovesciano liberamente i codici di rappresentazione tradizionali. Il regista propone un montaggio irregolare e frammentario, colloca la macchina da presa in posti del tutto inusuali, con il risultato di ottenere inquadrature oblique che mettono in risalto l’artificiosità della macchina filmica. La recitazione stessa del protagonista è spesso ostentatamente esibita e rompe di continuo il processo di identificazione dello spettatore. Tutto è votato alla libertà d’espressione e all’emancipazione dai dettami del cinema classico. Anche i caratteri dei personaggi sono uno specchio che riflette le intenzioni del regista: se Michel privilegia una libertà nei comportamenti e nelle azioni, puntando su un’aperta violazione della legge, Patricia sviluppa invece una sperimentazione mentale, interrogandosi sulle prospettive esistenziali, cercando di costruire nuovi percorsi di libertà. E i protagonisti sono, in fondo, anche i prototipi dei nuovi soggetti esistenziali degli anni Sessanta, posti di fronte alla difficile scelta tra la realizzazione della propria essenza e il nulla. Un nulla contrapposto al dolore, inteso come continua ricerca dell’essere. D’altronde, in uno dei passaggi più lucidi della conversazione con Patricia, Michel risponde con decisione: “Il dolore è idiota. Io scelgo il nulla. Non è meglio, ma il dolore è un compromesso”. Il cinema di Godard è il cinema della libertà e del flusso, dove l’apparente caos rappresentativo diventa perfettamente simmetrico al carattere dei personaggi. Forma e contenuto, ricerca artistica e ricerca esistenziale si rispecchiano alla perfezione l’una nell’altra, raggiungendo in Fino all’ultimo respiro un punto di fusione di eccezionale levatura.
Aldo Nicodemi