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Il perché dell’Università

“E che potevo fare, il pezzo di carta ormai serve anche per pulire i bagni al fast food.” “E che potevo fare, dovrò pur occupare il tempo in qualche modo visto che di lavoro non ce n’è!” “E che potevo fare, i miei mi avrebbero ucciso se non ci fossi andato”

Che ci piaccia o no, ormai son questi i motivi principali che spingono i diplomati a continuare nello studio. Gettare uno sguardo oggettivo e lucido sul valore che l’Università ha al giorno d’oggi è un obiettivo doppiamente difficile da centrare. Doppiamente perché si può ragionare sia in modo idealista identificando l’Università esclusivamente con la Cultura (il maiuscolo è voluto), sia in modo concreto (e, ahimè, razionale) identificandola come uno sbocco nel mondo del lavoro. Quanti, al Liceo, stringevano i denti e pensavano a quando finalmente avrebbero fatto il grande salto e studiato solo cose che li avrebbero appassionati? E quanti dopo qualche materia seguita, dopo qualche esame, hanno cominciato a pensare all’Università solo come a una serie di esami da togliersi di mezzo prima di potersi laureare e iniziare a cercarsi un lavoro? Forse non è il caso di addossare tutte le colpe all’università, se ormai questa è la mentalità dominante. Certo, la riforma che ha portato alla laurea triennale è incomprensibile ai più, ma non può essere solo questo il problema. Probabilmente molto è dovuto al pessimismo generale che serpeggia tra i giovani, specialmente se meridionali. Come si può affrontare con serenità e costruttività l’esperienza universitaria quando già si sa che alla fine si dovrà giocoforza lasciare la propria regione per altri lidi per trovare un impiego, quando non già semplicemente per il “+2” della triennale? Basta chiedere un po’ in giro nelle facoltà catanesi se dopo la laurea si rimarrà qui o si andrà in altre città. La risposta è quasi sempre “vado fuori naturalmente, che ci resto a fare qui?”, condita da una risata a metà tra il beffardo e il malinconico. Si respira una certa aria di disfattismo tra gli studenti universitari, è innegabile, e si ha l’impressione che la quasi totalità di essi, se avessero la possibilità di avere un impiego fisso a tempo indeterminato mediamente remunerativo (anche del tutto estraneo ai loro interessi) prima di finire gli studi, non si lascerebbero sfuggire l’occasione. Non gli si può dare torto, in fondo. Il lavoro sicuro viene prima della cultura personale, è naturale quanto doloroso da accettare per qualunque amante, un po’ radicale e un po’ snob, dei libri e della conoscenza. Che ruolo deve avere l’università nel contesto odierno? Formazione, preparazione al lavoro, certo. Sarebbe bello però se fosse anche, principalmente, solo oasi di Cultura. E allora non si possono che ammirare quegli anziani che si iscrivono ai corsi di laurea una volta in pensione. Probabilmente potremmo inserire la loro risposta fra le tre all’inizio del nostro discorso: “E che ci potevo fare, amo la Cultura”.

Tomas Mascali