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Il regista del silenzio

E’ del lontano 1966 Film, uno dei lavori più discussi e noti di Beckett. Il protagonista (nell’impeccabile interpretazione di Buster Keaton) riveste il ruolo di un uomo che in modo irrefrenabile si sottrae all’obiettivo della cinepresa. Eroe, senza onori e gloria, si sente oppresso dalla presenza degli altri, presenza espressa metaforicamente attraverso il diabolico strumento della cinepresa che, definito come un ‘occhio-belva’, è un archibugio che divora il corpo e poi lo butta via sbriciolato. Questa fuga, instancabile e meccanica, dall’ ‘occhio-belva’, funge da nucleo all’interno di un altro film: Quadrat, scritto per la Scuola di Danza di Stoccarda, che andò in onda l’8 ottobre del 1981. Quattro sagome umane, rivestite con tuniche di vario colore, percorrono delle traiettorie lineari, parallele e diagonali rispetto ad un centro che non riescono mai a sfiorare. Il film realizzato grazie alle riprese di Jim Lewis nel 1981, è allegoria della condizione dell’uomo, continuamente preda d’una violenta ripetitività gestuale dove la comunicazione è un abisso nel quale la ragione non ha dimora. I personaggi beckettiani sono umani senza parola, perduti e smarriti dentro una solitudine estrema. L’eroe beckettiano è un essere che non riesce a comunicare col proprio corpo ed è impenetrabile in quella confusione interiore che lo rende distaccato dagli eventi circostanti. La trasposizione nell’ambito della filmografia delle opere teatrali per Beckett  rappresentò motivo di crisi e di intensa angoscia, poiché per lui era impossibile ‘fotografare’ le parole. Appare allora il silenzio nella visione esisternziale dell’intellettuale, incisivo nella dimensione dell’ascolto e paragonabile ad una forma eterea di comunicazione: senza il silenzio-ascolto le voci si accavallerebbero e sfocerebbero nel caos e nell’incomprensione o, semplicemente, nell’incomunicabilità. Il silenzio non equivale, allora, al vuoto e non é fine a se stesso ma cela il disperato grido di chi vorrebbe intravedere un senso in questo sonno profondo che è l’esistenza, come il protagonista di Notti e sogni (Nacht und Traume) che, in una stanza buia, illuminata dalla sola luce del crepuscolo, canta sommessamente il Lied di Schubert fino ad addormentarsi. In sogno appaiono due mani che confortano l’uomo e esso culmina quando le mani del sognatore e le mani sognate si toccano.

Beckett non chiede l’esistenza di un Dio che conforti gli uomini, un conforto potrebbe anche derivare dagli stessi uomini, nella condizione terrena, senza dover rifugiarsi in analisi astratte che hanno solo lo scopo di camuffare l’isolamento psicologico che segrega tutte le anime. Ma in questo ‘buio’ asfissiante, in cui l’animo umano invoca l’essere assassinato che è racchiuso in sé, le parole si tramutano in soliloqui ora fiochi, ora selvaggi; ora balbettanti, ora continui, ed emanano un fiotto inarrestabile. Le parole in Beckett si mutano in lacrime. Gli occhi, vitrei e penetranti, diventano una bocca: la bocca di Beckett.

Sabina Corsaro