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Il senso della vita

Qual è il senso della (mia) vita? Direi che tutte le tradizioni mistiche, le quali rientrano nel campo degli esoterismi in quanto discipline presumibilmente nascoste e che necessitano di una qualche iniziazione, gemmino da questa domanda, implicitamente ma più spesso esplicitamente, o da una sua qualche riformulazione in altri termini. Una domanda strana. Una domanda consueta, almeno nelle infanzie, eppure destinata a generare vertigini a chi la voglia inseguire oltre la soglia delle scuole elementari. Vertigini che possono diventare malattia se si verificano o proseguono in età più adulta, quando una certa maturità dell’individuo fa diventare le cose più gravi – ricordo un esempio famosissimo e dei più commoventi, per quanto antico: “Il Signore dette a me, frate Francesco, di iniziare così a fare penitenza. Perché quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi. E il Signore stesso mi condusse tra loro e con loro usai misericordia. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro fu trasformato in dolcezza d’animo e di corpo. E dopo stetti un poco e uscii dal mondo” (Francesco d’Assisi, Testamento 1-3).

E dopo stetti un poco e uscii dal mondo: una frase d’eccezione, in cui sono registrate l’incertezza dei primi passi e tutta la drammaticità e la pesantezza della chiamata mistica, che nel caso di frate Francesco implicava l’uscita dal mondo, cioè la rinuncia ai desideri e ai piaceri mondani, alle effimere sicurezze del benessere, in quanto elementi di corruzione dell’anima e di lontananza da Dio. Così hanno creduto da sempre i mistici cristiani, seguendo la tradizione anacoretica dei padri del deserto, un po’ per l’ascendenza dei proto-monaci delle comunità esseniche e di altre sette ebraiche, un po’ per l’imitazione dell’esperienza terrena del Cristo; e così ci siamo abituati a credere che il solo modo per essere vicini a Dio sia di rinunciare al mondo.

Ma rinunciare al mondo al principio del 21° secolo? Certo, si potrebbe dire che anche per i mistici del passato la rinuncia al mondo, al loro mondo, che sarà stato diverso ma pur sempre con dei vizi assai simili ai nostri, dovesse essere una scelta difficile, un vero sacrificio, ma un sacrificio che per chi è cresciuto in questi anni e dopo il Novecento ha dell’impossibile e forse ormai anche dell’insensato. Troppa velocità, troppe informazioni, troppe Hiroshima, troppi accessi al mondo esterno che in passato ci erano preclusi (Francesco andava a Rieti, andava a Roma, al più giunse a Damietta e ad Acco – e anche è vero che ci andava a piedi). C’è ancora chi si mette in testa vie francescane, veramente francescane, ma a mia conoscenza non durano molto e non vanno molto in là. Di solito non sanno sopravvivere. Siamo altra gente ormai. Per cui se uno si ammala farebbe bene a chiedersi, fosse solo per puntiglio intellettuale:

Ma quel percorso mistico che implica la rinuncia, è proprio l’unico autentico? È davvero necessario rinunciare alla creazione per acquistare il Creatore? Non c’è in questo assunto un qualcosa di profondamente illogico e di un po’ perverso? La domanda sul senso della vita trova risposta soltanto nel monachesimo e nell’ascetismo? Astinenze, sofferenze, sporcizia; nei casi migliori un po’ di yoga per mettere sotto controllo i morsi dei bisogni corporali senza ricorrere al cilicio e alla frusta. È proprio questo che Dio, cioè quel principio creatore non meglio identificabile che sembra invitarci al confronto, vuole da noi? Vuole la mortificazione dell’umanità da lui creata per avvicinarci a lui? L’imitazione di Cristo della tradizione cristiana indica solo questo percorso. Ma è mai possibile che ogni cosa creata sia così stupidamente creata da dover essere buttata via? Chi si inoltra per le vie ignote di quella domanda di solito non ha dubbi ateistici; d’altra parte, non è cosa nuova ma succede sempre più spesso, si capisce anche che nell’astinenza e nelle mortificazioni della carne c’è qualcosa che non va, e con quel pensiero in testa si volge altrove il proprio sguardo.

Sia chiaro: non è affatto mia intenzione di svalutare o sottostimare le ascesi dei mistici cristiani, né dubito che i loro percorsi siano stati veri, non cioè commercio spirituale. A leggere le storie di san Francesco e dei suoi primi compagni, si capisce bene. Ma era pur sempre il XIII secolo e quella era la via giusta per loro. Nulla ci garantisce che sia ancora percorribile né che sia la sola né che sia percorribile da ognuno. Mi piacerebbe allora raccontare di due vie mistiche che hanno ben poco a che fare con l’uscita dal mondo cristiana, che invece lo utilizzano pienamente come mezzo propulsivo per accedere al mondo spirituale, pur continuando a vivere in questo. Un mondo, quello spirituale, che non è in contraddizione con quello fisico e con i suoi principi, né perciò con i desideri né con il piacere né con le sicurezze effimere che lo caratterizzano, ma che a questo è complementare. Qualcosa di più vicino al nostro sentire, se non comunque di agevole praticabilità.

Spero di non sembrare minaccioso. Voglio dire, non è più tempo qui di caccia alle streghe e credo non sia più necessario relegare il corpo, i desideri e il piacere a qualche sfera di realtà diabolica. Se però la si pensa così, questi articoli potranno risultare fastidiosi. Non che io voglia fare propaganda infernale: è un argomento che semplicemente non mi interessa, che trovo primitivo e inutile. Certo, qualche teologo moderno ha pensato bene di farci sapere che il gran successo di Satana nell’epoca presente sta nell’averci convinti della sua non esistenza, per così manipolarci a piacimento, nel silenzio, ignorato, non visto. Si può credere anche questo, se si vuole.

Per la Cabalà (o Qabbalah, Kabbalah e chi più ne ha di traslitterazioni più ne metta) e per i Tantra i desideri e il piacere non rientrano nell’ambito delle cose pericolose ma sono materiale vivo, umano e reale da utilizzare come strumento di ascesi. È di questo che vorrei parlare. Non come in un trattato però. Non ne sarei all’altezza e soprattutto non mi interessa. È improprio a questo ambiente. Qui si guarda e passa: meglio perciò un discorso trasversale, come le mosse che facciamo con i nostri mouse, e intendo un itinerario personale attraverso culture diverse. Mi limiterò inoltre a dire ciò che so, a quello che ritengo di sapere per esperienza intellettuale e del sentire, senza disdegnare i riferimenti testuali che pure ci ancoreranno a parole autorevoli. O che forse ci adorneranno di parole autorevoli. Sarà un po’ un saccheggio, è vero, ma è il meglio che si possa fare per rivitalizzare del materiale altrimenti inerte e impastare le tradizioni alle esperienze individuali per tirarne fuori qualcosa di effettivamente comunicativo, non astratto, non recondito, non totemico, magari ancora impraticabile ma non importa. E allora la Cabalà contemporanea di ascendenza luriana e gli śākta pīṭhas, centri di culto tantrico venuti fuori dal mito di Satī. Sarebbe bello infine poter seguire un percorso interattivo, dove i post di chi leggerà un articolo abbiano modo di influenzare quelli a venire: è un privilegio che ci è concesso affatto secondario.

Questo per rompere il ghiaccio. La prossima volta delimitiamo alcune sponde argomentative e poi proviamo a navigarci sopra e dentro. Evitando con cura gli abissi.

Da Varanasi, India.

Gian Maria Turi