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Immigrazione: non solo una questione di “ius soli”

È oramai sulla bocca di tutti: la percentuale di immigrati stranieri con regolare permesso di soggiorno in Italia costituisce l’8% della popolazione italiana. Una notizia che divide l’opinione pubblica tra chi tenta ancora la chiusura nei confronti di chi arriva da paesi meno fortunati del nostro e chi, invece, si sente pronto ad essere un cittadino del mondo prima di essere italiano. Il centro del dibattito politico già da qualche tempo si concentra sulla possibile approvazione della “ius soli”, che permetterebbe ai bambini nati in Italia da genitori stranieri di ottenere fin da subito la cittadinanza, soppiantando così il sistema della “ius sanguinis”, dove italiani a tutti gli effetti erano solo i bambini nati da genitori che erano già tali. E, mentre Beppe Grillo stupisce tutti con le sue dichiarazioni che si stagliano prepotentemente tra quelle dei più conservatori (cosa che stupisce poiché non in linea con quello che è il suo pensiero politico generale), il resto dello stato si interroga su cosa voglia davvero dire essere italiani, e chi si merita, quindi, di esserlo. Partendo dal presupposto che sicuramente ciò implica anche il possesso di un ben definito bagaglio culturale, dobbiamo innanzitutto renderci conto che gli italiani che andiamo a designare non sono quelli di ieri o di oggi, ma di domani: considerando che la nostra popolazione è composta da un numero di persone ultrasessantacinquenni molto più numerose rispetto alla nuova generazione dei giovani, risulta necessario chiedersi se l’arrivo di immigrati in Italia sia davvero uno svantaggio dal momento che, un giorno, un numero esiguo di adulti si ritroverà a dover mantenere un elevato numero di anziani. Al fronte di tutto ciò, la possibilità di sostenere il paese grazie al lavoro svolto da tutta questa nuova fetta di popolazione diviene una vera e propria risorsa. Per non parlare del fattore umano: sebbene differenti per colore di pelle, lingua o cultura, si tratta, a livello umano, pur sempre di persone in nulla diverse da noi: spesso fuggono da situazioni difficili, paesi in cui i loro diritti in quanto uomini non sono rispettati o dove non ci sono possibilità lavorative. Talvolta, si tratta di realtà tanto dolorose che spesso ci risulta difficile immaginarle quando li troviamo per le strade felici e sorridenti: spesso vittime di stupri, persecuzioni o mancanza di posti di lavoro, scappano da un paese che, per quanto patria, non può donare loro un futuro. Anche loro donano un futuro a noi: accettano di svolgere quei lavori manuali che i giovani italiani sembrano proprio non voler accettare ma che stanno alla base dell’economia del paese. E poi, diciamocelo: chi di noi non accetterebbe di lasciare casa e paese d’origine ed affrontare una realtà talvolta ostile per poter donare un mondo migliore ai propri figli? Questo è tutto ciò di cui bisognerebbe ricordarsi sempre: prima di essere italiani, siamo uomini.

Sara Servadei