Pubblicato il: 13 Dicembre, 2008

L’insostenibile violenza dei videogiochi

censuraUn ragazzo, possibilmente americano, commette un omicidio. Se plurimo, ancora meglio. Chi lo sa, potrebbe uccidere la madre e il padre, o potrebbe fare irruzione in un liceo con un suo amico e fare una strage di studenti e insegnanti per poi suicidarsi all’apice della gloria. E tutto il ventaglio di violente nefandezze comprese tra i due estremi. Giovane? Violenza? Omicidio? Signori, il capro espiatorio è servito. Videogiochi, dannati videogiochi (che ormai stanno superando in classifica i cari vecchi film violenti di una volta. Si stava meglio quando si stava peggio.). Traviatori di promettenti gioventù, imbarbarimento del tempo libero, attentatori del quieto vivere. Torniamo ai due giovinastri di prima. Uno ha ucciso a coltellate il padre e la madre: diamine, è così lampante che non c’è nemmeno bisogno di indagare. Il ragazzo ha ucciso i suoi genitori dopo un violento litigio riguardante i soldi. Naturalmente i soldi gli servivano per comprare l’ultimo videogioco uscito. Archiviato. Il secondo giovane ha ucciso a colpi di fucile quindici suoi compagni di liceo e quattro professori, per poi puntarsi l’arma alla testa e fare fuoco: anche qui la cosa è talmente lampante da non dover indagare. Avete presente quel videogioco, uscito da poco, in cui bisogna uccidere quante più persone possibili per ottenere denaro e bonus di vario tipo? Non è evidente che il giovane abbia voluto emulare l’esempio del videogioco? Archiviato.

Sarebbe bello ora scrivere di come i media trattano il fenomeno dei videogiochi. Purtroppo, però, la prima parte dell’articolo riesce già a farlo abbastanza fedelmente, tanta è la disinformazione propagata dai mezzi di comunicazione. Del resto è nota la tendenza di giornali e telegiornali alla spettacolarizzazione ad ogni costo, e di certo è molto d’effetto, romantico quasi, parlare di un giovane che agisce condizionato da un videogioco. Fa più ridere che siano anche i politici a far la voce grossa in questo campo, di tanto in tanto: ricordiamo in Italia il caso del gioco “Mafia”, splendida storia ambientata nell’America anni ’30, che voleva essere ritirato dagli scaffali da un qualche politico che probabilmente pensava che chiunque ci avesse giocato avrebbe iniziato a lasciare teste di cavallo mozzate nei letti dei vicini antipatici. Ma forse è meglio, in difesa dell’intelligenza di questi politici, sperare che questo polverone sia stato sollevato in cattiva fede, tanto per far vedere di stare dalla parte dei genitori per il bene dei figli.

Non vogliamo certo arrivare a un pensiero opposto, quello per cui qualunque videogioco va bene per qualunque ragazzino. I videogiochi, come i film, sono divisi per fasce d’età, e per quanto il famigerato “18+” di certo non spaventa più nessuno e viene assegnato magari con troppa severità (o forse, più semplicemente, lo standard di sopportazione della violenza si sta alzando sempre di più), è comunque bene evitare che un bambino di dieci anni metta le mani su un videogioco con contenuti più adulti. Certo, qui si instaura un circolo vizioso. Un bambino di buona famiglia che gioca a un videogioco violento, ma è comunque seguito dai genitori nel corso della sua infanzia, è tendenzialmente meno propenso a prendere a modello (attenzione, prendere a modello, il che è ben diverso dal farsi condizionare) i protagonisti e le vicende di quel gioco rispetto a un bambino abbandonato a se stesso e cresciuto in una famiglia problematica. Ma per converso, il bambino abbandonato a se stesso ha una probabilità più elevata di usufruire di forme d’intrattenimento non consone alla sua età, in quanto meno controllato. Il problema si complica ulteriormente nel caso di ragazzi con problemi psichici, visto che bisogna sempre tenere presente che l’ambiente è importante nella formazione del ragazzo, ma che è il ragazzo ad assorbire e filtrare l’ambiente, non l’ambiente ad assorbire il ragazzo. Ancora una volta sono i genitori che hanno un ruolo decisivo, nel capire cosa può far del bene e cosa può far del male ai loro figli. Semplicemente, ci vorrebbe equilibrio. I media dovrebbero parlare dei bambini parcheggiati fin da piccolissimi davanti a un televisore o davanti al computer da genitori che non hanno il tempo o la voglia di occuparsi di loro, e non di ragazzi che commettono violenze perché cresciuti in ambienti disastrosi o perché malati (non si offendano i benpensanti), dando la colpa ai film e ai videogiochi. Scusando la citazione non propriamente colta, in una puntata dei Simpson un personaggio si chiede “Chi penserà ai bambini?” Già, chi ci penserà? O, più semplicemente: che fine hanno fatto le famiglie?

Tomas Mascali

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