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Intervista a Gianni Salvo

Gianni Salvo è direttore artistico del “Piccolo Teatro” di Catania nonché autorevole regista di Teatro su scala nazionale. Ha organizzato in collaborazione con l’Ersu e l’Università di Catania, diversi Laboratori teatrali, al fine di garantire un rapporto importante con i giovani e il teatro. Dal 1966 a oggi con il Piccolo Teatro ha raccolto consensi della critica e sviluppato un teatro sperimentale per più di quarant’anni di attività. Ha partecipato come regista anche ad importanti rappresentazioni e collaborazioni con lo Stabile di Catania e il Teatro Massimo Bellini.

Quanto è importante il pubblico per il Teatro?

Il Teatro è uno strumento critico dunque ha necessità di confrontarsi con il soggetto e con l’oggetto. Il soggetto è l’uomo, l’oggetto, la società, dunque la realtà che circonda l’uomo. Necessariamente c’è questa esigenza di dialogo, un dialogo dialettico fatto di divergenze e convergenze. Il Teatro ha necessità di identificare questo; necessità per esempio che non ha l’artista quando deve dipingere un quadro. Un pittore può realizzare un quadro in uno studio ed è lì che nasce l’opera. Il Teatro è fatto invece di vari appuntamenti; parte dal testo per poi investire vari ruoli e farsi carico di confrontarsi con il pubblico.

C’è un pubblico ideale per ogni tipo di Teatro?

Il Teatro è uno! Non esistono tipi di Teatro. Quando si definiscono “tipi” vuol dire che ci sono altre componenti ma questo non è Teatro; il Teatro è Teatro o non lo è affatto. Dunque il pubblico è tutto. Però esiste un tipo di pubblico che è contaminato, meno “addetto”, meno disponibile perché inficiato da esempi sbagliati di finto teatro, da una Televisione “mortale” e in questi casi non recepisce. Potenzialmente il pubblico è tutto ideale. Però gli accostamenti, le frequentazioni possono essere diverse e in questo caso si determinano delle “isole” più disponibili e meno disponibili. Ma ciò non dipende dal pubblico ma da queste multinazionali che “inventano” la cultura.

Il Teatro può comunicare qualcosa artisticamente ad una città come Catania?

Può comunicare artisticamente quando l’interlocutore è attento e allora può nascere un dialogo ma non esiste se l’interlocutore, in questo caso l’istituzione o le istituzioni in generale, utilizza il Teatro solo come un momento di evasione, di passatempo o di rifugio, ancora peggio, nella ricerca di eventi; la parola “mortale” che mortifica l’uomo è l’evento, allora il Teatro si misura con un metro che non gli appartiene, il concetto vuoto di evento. In questo caso se le istituzioni puntano su una serie di distrazioni o si avvalgono di alcune formazioni culturali solo come passatempo, ovvero più propriamente se le istituzioni hanno bisogno di un oppio da propinare a un pubblico, allora si occupano di Teatro, di cultura in generale.

Cosa significa per il “Piccolo Teatro” avere autonomia?

Non appartenere a nessun partito. Sfuggire ai compromessi e la cosa forse più importante costruire dei cartelloni al di là di quelle che sono le logiche commerciali e televisive del Teatro. Questo è il privilegio principale dell’avere autonomia.

Il Teatro insegna dei valori da emulare nella vita quotidiana?

Tutta l’arte può avere risvolti provocatori, terapeutici. Può fornire delle provocazioni attraverso le quali si possono anche individuare, scoprire, rispolverare dei valori ma il Teatro da solo non può fornire dei valori, diventerebbe un Teatro didattico, un Teatro da messaggio e il messaggio non appartiene al senso libero dell’arte. Il messaggio ognuno lo trova e lo cerca come vuole sulla base di una sensibilità, di una cultura, sulla base di tante cose; il Teatro non prende per mano lo spettatore e dice: “questa è la strada giusta!”. Può fornire delle provocazioni attraverso le quali uno spettatore può trovare un suo spazio e ritrovarsi dialetticamente o in contrasto o in accordo.

L’essenza dell’opera originale, la fedeltà verso il testo originale per la precisione, secondo lei ostacola o permette al regista di ottenere una maggiore identità innovativa nello spettacolo?

La fedeltà può essere delle volte un dato illusorio, archeologico, filologico, non è sicuramente la chiave con cui si riesce a leggere un’opera d’arte perché a questo punto dovremmo essere legati allo “Sturm und Drang”, all’Arcadia, ecc.,  ma questo non significa che io non possa leggere Gianbattista Marino, chiaramente non utilizzando i meccanismi della critica odierna, di una visione del mio tempo,  altrimenti questa fedeltà mi si riverserebbe contro non diventando un pregio o una garanzia. Oggi noi, possiamo leggere Euripide con una ricchezza che ci viene da secoli e secoli e quindi non facciamo che impreziosire il testo. Se poi questa “mancanza” di fedeltà significa stravolgere o citare allora non ci sarebbe speranza. In quel caso preferisco leggere Euripide con il testo di Manara Valgimigli.

Sabina Corsaro