Intervista a Simona Lo Iacono
Simona Lo Iacono è magistrato presso il Tribunale di Siracusa. Il suo primo romanzo Tu non dici parole (Giulio Perrone, 2009) ha vinto il premio Vittorini opera prima. E’ animatrice nella sua casa di un “salotto letterario”, in cui riunisce scrittori e artisti. Tiene inoltre conferenze sul rapporto tra Diritto e Letteratura.
1) È difficile svolgere il ruolo di magistrato ai giorni d’oggi?
E’ difficile sempre. E’ uno dei ruoli più complessi e delicati che un essere umano possa esercitare. Non solo perché l’interpretazione del fatto perde, necessariamente, durante il processo, briciole di verità, stille di emozioni e finanche motivazioni. Ma anche perché il processo si forma su prove “umane” che vanno decifrate, rivissute, indirizzate alla decisione finale. Un cammino, il processo, che richiede quindi grande umiltà e desiderio di “servire” chi chiede giustizia.
2) Ci sono dei casi in cui talvolta appare più difficile non lasciarsi coinvolgere umanamente?
A me accade quando sono coinvolti minori. Faccio un grande sforzo umano ed emotivo per distaccarmi e, al tempo stesso, per conservare umanamente quella pietà che, comunque, è utile alla decisione quando si trasforma in tutela del debole, di chi non può chiedere autonomamente giustizia. Di chi, insomma, non ha parole se non attraverso altri, e non ha che sguardi mediati, riflessi. Penso ai dolorosi processi di separazione e divorzio in cui siano coinvolti bambini. Ma anche agli abusi, ai maltrattamenti, alla violenza. Tutti casi in cui, sotto la toga, tremo.
3) Addentriamoci nel labile confine tra giudizio sull’uomo e giudizio dell’uomo sul mondo. Tu hai un amore innato per la Letteratura, a cui ti sei sempre accostata attraverso la lettura e, da qualche anno, anche attraverso la scrittura. Mi parli di questo tuo indelebile amore?
E’ un amore originario e sorgivo, che mi ha posseduta fin dalla primissima infanzia. Non solo perché la lettura mi immetteva in un “mondo”, ma anche perché sentivo che trasformava la vita e me la restituiva pulsante di un “senso”. Forse il mistero del giudizio è legato al mistero della parola, perché ci decifriamo sempre attraverso i racconti, su noi stessi e sugli altri. Ho sempre pensato al processo (e alle deposizioni testimoniali, in particolare) come a un crogiolo di racconti e vite, ricordi e narrazioni. Chi scrive, chi legge, non fa che raccogliere resti, infondo, e cibarsi di scaglie e fette di una realtà immensa, trascendente, che ci domina e che ci involge. Sia nel caso della letteratura che in quello del processo è come scoprire gradualmente un segreto. Il risultato siamo noi e i mille noi involuti o in attesa di espansione, la verità del momento e la verità assoluta, l’esistenza col suo invisibile codice di simboli e segnali che brillano come stelle, come astri in attesa di essere avvistati.
4) Come fai a far coesistere due mondi apparentemente diversi, quello del tuo lavoro di magistrato e quello di autrice? Come riesci a dedicarti anche alla scrittura?
Come ti dicevo prima i due mondi coesistono perché possiedono affinità profonde e sovrapponibili. La ricerca della verità. Quella processuale, nel caso del giudizio, quella su noi stessi, sul mondo e sulla vita, nel caso della letteratura. Non c’è quindi stacco alcuno tra le due dimensioni che – col tempo – hanno finito per vivere l’una dell’altra, per arricchirsi vicendevolmente e per approfondire il senso dell’uomo e del suo mistero. Mi accosto alla scrittura la notte, quando i miei doveri lavorativi si sono chiusi e sulle voci d’udienza, sugli sguardi, sui tramestii e sulle giustificazioni è sceso, infine, il silenzio. Allora i fantasmi del giorno prendono vita, si allineano e mi tormentano. Reclamano così prepotentemente un’esistenza da farsi quasi da sé. Da prendere consistenza con fare da padroni.
5)Il linguaggio dell’animo, insomma, la sfera della coscienza, sono identici sia nel Diritto che nella Letteratura? Qual è il ponte comunicante tra i due ambiti?
Il ponte è sempre l’uomo. E, con esso, la vita che devia, il destino che muta rotta, l’azione umana e il suo indirizzarsi verso l’oscurità o la luce. Il processo sintetizza il bene e il male che convivono in noi, proprio come fa la letteratura. Ci racconta e narrando le nostre azioni ci disvela a noi stessi, ancor prima che al giudice. E’ uno dei viaggi più dolorosi e pietosi che un essere umano possa compiere.
6) L’autore di un romanzo equivale ad un Giudice che assegna ai suoi personaggi un destino, più o meno cinico, più o meno infelice o brillante? Oppure è lui l’imputato del processo?
Lo scrittore è ogni parte processuale tranne un giudice. Può essere accusato o accusatore , teste, imputato e avvocato difensore, ma non deve mai giudicare i suoi personaggi. Deve raccontarli. E anche un giudice, quando emette sentenza, non deve mai giudicare l’uomo. Solo i fatti, le azioni, gli errori. Ma il giudizio di un uomo su un altro uomo credo sia una violenza e una grande ingiustizia.
7) E il lettore? E anch’egli a sua volta un Giudice?
Sì, il lettore può giudicare. E’arbitro di un mondo di assoluta e felicissima libertà. Si deve concedere il gusto e l’appagamento di prendere il libro, lasciarlo, amare o odiare i personaggi. Al lettore è concesso perché la letteratura è un mondo che deve offrire un’indecente e vertiginosa possibilità. Immedesimarsi e rivivere, trapassare la pagina o aggredirla. Fare del libro una seconda opportunità.
8) Sul rapporto tra Diritto e Letteratura digredisci sia nelle conferenze presso l’Università, sia nello spazio del blog “Letteratitudine” di Massimo Maugeri. Da qui il connubio non solo tra Diritto e Letteratura, ma anche tra questi ambiti e il nuovo linguaggio dei media, in un’era in cui, nonostante l’elevata tecnologia, si sente ancora il bisogno di caffè letterari.
E’ vero. Il bisogno di aggregazione si avverte, nonostante la velocità dei tempi. E d’altra parte l’elevatissimo numero di commenti che pervengono proprio su “Letteratitudine” dimostra che la voglia di parlare di libri è pulsante, viva come una creatura. Ho imparato molto dal blog, dall’aria di pura condivisione che Massimo è riuscito a creare. E’ un’impresa difficilissima, oggi, accomunare senza aggredire, alleviando lo scambio col garbo e il sorriso. E’ ancora a Massimo che devo la nascita di una poetica su diritto e letteratura. Poetica che è adesso confluita nell’adesione, sia mia che di Massimo, alla Law and literature society presso l’università di Bologna. Una società che raggruppa studiosi di tutto il mondo che riflettono sui rapporti tra legge e parola e che ci ha contattati per partecipare. Sia io che Massimo, ovviamente, abbiamo aderito con immensa gratitudine .
9) Casa tua è un luogo di incontro per molti artisti: ci parli di questo meraviglioso rituale?
E’ un rituale che si svolge intorno al cibo…In genere preparo un buon pranzetto, perché sono una sostenitrice del fatto che la buona cucina aggrega e concilia l’amore e l’allegria. Gli invitati giungono in mattinata, nel fine settimana e iniziano a discutere con l’ospite del libro. Io modero la discussione, offro materiale di lettura, e frattanto curo che il pranzetto sia pronto. Interrompiamo per mangiare in un clima festosissimo e riprendiamo nel primo pomeriggio con la sensazione di essere stati, per qualche ora, strappati al mondo e ai suoi ritmi trituranti, che soffocano amore e fantasia.
10) Ed ora parliamo del tuo libro d’esordio. Tu non dici parole; cosa ti ha regalato?
Mi ha fatto moltissimi doni. Il premio Vittorini, innanzi tutto, che mi ha emozionata e colta di sorpresa. Ma anche un viaggio nel territorio, in tutti i luoghi in cui ho presentato il libro e in cui ho scoperto che Francisca, la protagonista, prendeva corpo e vita in modo rinnovato. Ho gironzolato per paesini e città, ho raccontato e mi sono raccontata, ho scoperto cieli, terre, profumi e frammenti di una Sicilia che si disvelava come una complice misteriosa del mio romanzo. E’ un’esperienza che mi ha commossa e cambiata, nel senso che ora so che scrivere un libro è anche attraversare il cuore e le case degli altri.
11) Come nasce la necessità di ‘scrivere parole”?
Nasce con me e prima di me, nasce nel destino che ciascuno di noi trova scritto nel sangue e nella carne, nasce perché la vita è resurrezione, dalla negazione alla affermazione, sempre. Scrivere parole è l’atto vitale per eccellenza, il verbo che non solo si fa carne, ma non vuole morire, è la strabiliante capacità di noi stranissimi uomini a portarci all’esterno con un atto che deve essere da altri interpretato e rivissuto. Una moltiplicazione della vita in altre vite e in altri occhi, se pensiamo bene, perché ciò che scriviamo deve essere anche letto. Non credo che esista manifestazione più fremente di noi che il raccontarci e il vederci vivere attraverso le parole, come se l’essere che esiste fosse un dormiente e noi il suo vero e infaticabile narratore. Due, non uno, è stato detto. Ma io preferisco pensare a un “noi”, come se la scrittura fosse sempre tutti, e ciascuno, come se si facesse interprete anche di coloro che non siamo, che potremmo essere o che non siamo riusciti ad essere. Ecco. Credo che la necessità di scrivere parole nasca da un selvaggio desiderio di libertà.
12) Cosa vorresti ci fosse domani nella tua vita?
Ancora parole. Ancora storie da raccontare. Non riesco a vivere che scrivendo e so che è questo flusso ininterrotto di narrazioni a salvarmi, giorno dopo giorno. A perpetuare le mie mille e una notte.
Sabina Corsaro