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Intervista a Walter Molino: “ripensiamo il nostro lavoro”

Nell’ambito della seconda edizione del Festival del Giornalismo, tenutosi a Modica dal 25 al 28 Agosto, è stato ospite Walter Molino, giornalista siciliano, classe 1971, autore di “Taci infame, Vite di cronisti dal fronte del Sud” (il Saggiatore). Lo abbiamo incontrato nel suggestivo atrio comunale modicano, in occasione della presentazione del suo libro.

Cosa ti ha spinto a scrivere questo libro?

Una delle motivazioni è stata la lettura del Rapporto Ossigeno pubblicato nel 2009 (frutto del lavoro della FNSI e dell’OdG ndr) dove ho appreso che più di 40 giornalisti erano stati minacciati dalla criminalità. Inoltre si stava verificando un’escalation di violenza contro altre centinaia di giornalisti. Mi interessava fare venire alla luce come si fa questo lavoro e come si fa un’inchiesta. Sono partito con un po’ di nomi e intenzioni, ma la realtà ha superato tutte le immaginazioni.

Quali sono i personaggi protagonisti di “Taci infame”?

Sono giornalisti minacciati provenienti da quattro regioni del Sud (Sicilia, Calabria, Puglia e Campania), per la maggior parte precari, mal pagati e con poche garanzie. Gli indipendenti spesso vengono intimiditi anche economicamente e a volte gli editori per cui lavorano non garantiscono loro la minima protezione. Per esempio nel libro parlo di Giuseppe Baglivo, 35 anni, ex giornalista di Calabria Ora. Dopo essersi occupato di una vecchia storia, che tutti in realtà conoscevano, evidentemente pestando i piedi a qualcuno, è stato minacciato con due pallottole inviategli per posta. L’editore, per premiarlo, gli ha concesso un aumento di stipendio, da 200 a 300 euro al mese e lui se n’è andato dal giornale. Oppure scrivo di Gianni Lannes, il cronista più censurato d’Italia, da un paio d’anni bandito da tutte le redazioni. Ha subito vari attentati incendiari, mail e lettere minatorie e un probabile sabotaggio ai freni dell’auto. Solo il 22 dicembre 2009, dopo numerose segnalazioni e richieste, gli è stata assegnata la scorta.

Quando uscì il libro nacque una polemica con Pino Maniaci, proprietario e direttore di Telejato e alcuni suoi sostenitori. Perché?

Nel libro dedico circa due pagine alla figura di Pino Maniaci, minacciato e sotto scorta, e parlo anche del suo passato un po’ burrascoso perché, essendo inchiesta, non ho voluto tralasciare nulla. Questo però è stato visto come un attacco personale, un modo per indebolire la sua figura e mi hanno duramente attaccato per questo. In realtà Pino Maniaci, secondo me, è uno dei meno isolati in Sicilia. Inoltre non penso affatto che Pino sia un farabutto, ho semplicemente citato un verbale di un giornalista risalente a un anno fa. Essere dalla parte dell’antimafia non mette al riparo da critiche. Forse chi mi attacca tanto non ha ancora letto il libro.

Pensi che il giornalismo antimafia si stia istituzionalizzando?

Penso che oggi la mafia è cambiata e noi giornalisti dobbiamo capire come trattarla. Claudio Fava mi disse: “sull’antimafia si sono costruite tante carriere”, l’antimafia non si fa con le stellette. Penso che l’antimafia si dovrebbe fare in modo silenzioso, senza urla. Penso che l’antimafia alla Peppino Impastato era coraggiosa 30 anni fa, oggi però bisogna emanciparsi da ciò che era sovversivo 30 anni fa. Secondo me è più incisivo cercare di scoprire chi c’è dietro un affare losco che gridare nel nulla.

Che consiglio daresti a un giovane che volesse diventare giornalista antimafia?

Non ho un consiglio specifico. Solo farsi domande, sempre, non dare niente per scontato e essere estremamente documentati. Ciò che manca è lo scavare dietro, faticoso, ma necessario per fare questo lavoro.

Giuseppina Cuccia