Pubblicato il: 10 Agosto, 2009

Le voci soppresse

CensuraIl tempo lava via le macchie di sangue, ma non il loro ricordo. La Storia diviene una sorta di grande Libro dove ogni pagina si colora di bianco e di nero con spruzzi, qua e là, di rosso. Ma proprio il rosso ricopre interamente una delle più recenti pagine di questo libro, a causa della repressione e della censura nate dalla cecità.

Tra l’aprile e il maggio del 1989, oltre un milione di persone, guidate dagli studenti, occuparono pacificamente piazza Tienanmen a Pechino, chiedendo libertà e democrazia.

La storia sembra essersi fermata lì. La protesta studentesca, che cominciò nell’aprile del 1989, fu scatenata dalla morte di Hu Yaobang, il vicesegretario generale del partito. Hu era considerato una persona dalle idee liberali e fu obbligato alle dimissioni da parte di Deng Xiaoping e ciò venne giudicato molto negativamente da molte persone, specialmente da parte degli intellettuali. La protesta ebbe inizio in modo relativamente pacato, nascendo dal cordoglio nei confronti di Hu Yaobang e richiedendo al partito di prendere una posizione ufficiale nei suoi confronti. La protesta divenne sempre più intensa dopo le notizie dei primi scontri tra manifestanti e polizia. Gli studenti si convinsero allora che i mass media cinesi stessero distorcendo la natura delle loro azioni, che erano solamente volte a supportare la figura di Hu Yaobang. In occasione dei funerali di Hu un vasto gruppo di studenti si recò in Piazza Tien an men, chiedendo d’incontrare Li Peng, oppositore politico di Hu, ma questi non volle ascoltare le loro richieste. A quel punto gli studenti proclamarono uno sciopero generale all’università di Pechino. In un discorso Deng Xiaoping accusò gli studenti di complottare contro lo stato e fomentare agitazioni di piazza. Questa dichiarazione fece infuriare gli studenti e il 27 aprile circa 50.000 studenti scesero nelle strade di Pechino, ignorando il pericolo di repressioni da parte delle autorità e richiedendo nuovamente che il governo ritrattasse le dichiarazioni fatte in precedenza.

Il 4 maggio circa 100.000 persone marciarono nelle strade di Pechino, chiedendo più libertà nei media e un dialogo formale tra le autorità del partito e una rappresentanza eletta dagli studenti. Il governo rifiutò la proposta di dialogo, acconsentendo solamente a parlare con i membri designati dall’organizzazione studentesca.

Il 13 maggio un folto gruppo di studenti occupò Piazza Tien an men, cominciando uno sciopero della fame cominciando a richiedere una rappresentanza studentesca. Migliaia di studenti si unirono allo sciopero della fame, supportati da centinaia di migliaia di studenti e di residenti di Pechino.


Dopo giorni di tensione e incertezza, con parte delle forze armate schieratasi a difesa degli studenti accorsi nella piazza, il 3 giugno 1989, sotto il governo di Deng Xiaoping, le truppe dell’ALP (Armata di Liberazione Popolare) aprirono il fuoco, uccidendo centinaia di dimostranti e ferendone 10.000. Seguirono migliaia di arresti e di processi, conclusi con esecuzioni sommarie, mentre per impedire la diffusione di notizie fu attuato un severissimo controllo sugli organi di stampa cinesi e proibito l’ingresso nel paese ai giornalisti stranieri.

Nata per denunciare l’instabilità economica e la corruzione politica dello stato cinese, la protesta fu soppressa con la violenza da parte del Partito Comunista Cinese. Furono uccisi circa 3.000 studenti secondo Amnesty, mentre per i mezzi di informazione cinesi le vittime furono circa 350. La protesta si era allargata a tutti i media, raggiungendo quasi tutte le grandi città della Cina, praticamente tutte le università e gli istituti tecnici e professionali, molte miniere, fabbriche, unici e alcune aree rurali. In totale, quasi cento milioni di persone vi parteciparono in una forma o nell’altra. Il movimento era autonomo, spontaneo e disordinato (una sorta di valvola di sfogo dell’insoddisfazione popolare e della rabbia nei confronti del governo), ma fallì a causa della debolezza della corrente riformista ai vertici del Partito, delle divisioni tra i dimostranti e della mancanza di un’organizzazione e di un programma e a causa dell’abisso che separava gli intellettuali dagli operai e dai contadini. Fu proprio il suo fallimento a dimostrare che il movimento non era, come affermavano i suoi nemici, una rivolta “organizzata dalle forze controrivoluzionarie”.

Questi i fatti storici trattati un po’ ovunque, in modo monocorde, così come del resto sono narrati, solitamente, gli eventi storici. E altre sono le riflessioni legate al nefasto evento.

Una domanda rimane vaga nell’aria, mai dissolvibile coi suoi sentieri contorti, e pone un’ombra sulle nostre certezze: il rosso e il nero sono davvero così diversi?

Sabina Corsaro

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