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L’intervista a Hobsbawm: la globalizzazione impossibile

Tra i volti più incisivi della Storia contemporanea  spicca quello di Eric  John Hobsbawm  che, alla fine degli anni ’90,  rilasciava una lunga intervista ad Antonio Polito, inviato ed editorialista della “Repubblica” e coautore del libro Cool Britannia. Gli inglesi (e gli italiani) visti da Londra (Roma 1998). L’intervista venne pubblicata nella collana Economica Laterza nel  2001 col titolo  Intervista sul nuovo secolo.

Dall’intervista pubblicata da Laterza nel 2001 si evince la  rigorosità erudita con cui lo storico economico descrive le motivazioni e conseguenze dei grandi  processi della storia mondiale senza tralasciare la visuale su scala planetaria. Nei suoi esempi, accanto ai problemi legati alla realtà occidentale ergono, infatti,  anche quelli di aree geografiche meno note, non soggette a riflettori  né  ad attenzioni di sorta. Continui i riferimenti  al suo cavallo di battaglia, ma se The Age of Extremis (meglio conosciuto in Italia col titolo Il Secolo breve) è un grande affresco storico-economico del Novecento, il bilancio critico del ‘nuovo Secolo’  (operato  attraverso le risposte alle domande di Antonio Polito) è,  per certi versi, anticipatorio. Il secolo pre-letto da Hobsbawm, intellettuale d’eccezione, legato  all’Italia  dall’amore per  gli studi  della sua storia, appare a noi, oggi,  familiare. Sorprende  quella sua capacità di aver rilevato con coscienzioso giudizio i caratteri salienti della  società globale e ‘globalizzata’. Non a caso in Hobsbawm il termine ‘Globalizzazione’ ha valenza di accesso  auspicabile e crescente,  ma prettamente distante dal concetto di  accesso egualitario; processo utopico e difficile a farsi, poiché non si può compiere l’omogeneizzazione  “in un mondo  che è, per sua natura, ineguale e diverso”.  Per un intellettuale come lui,  cresciuto attraverso la lezione di Marx sulla Storia e legato ufficialmente e con passione al partito comunista, il concetto di accesso egualitario occupa uno spazio importante nella sua visione storico-economica. Ma quel comunismo, che tanti meccanismi  ha fatto scattare in paesi come l’Unione Sovietica e in altri paesi dell’est, non equivale ad uno stilema di cui doversi liberare. La componente militante, sotto più aspetti, influenza inevitabilmente, secondo Hobsbawm,  lo sguardo dello storico, così come quello del letterato. Tuttavia, non ci sono colpe o imbarazzi di sorta, piuttosto  prende vita il riscatto della coscienza nel momento in cui  lo storico cattolico cercherà di evitare a priori di indagare nei meandri  impervii dell’Inquisizione, e  lo storico comunista  eviterà  di addentrarsi nelle scartoffie dei documenti  inerenti i Gulag.  La componente comunista presente in Hobsbawm  influenza, come confessa lui stesso,  la scelta di  essersi voluto occupare del capitalismo, scelta che gli ha così  evitato  di dover andare contro la propria coscienza e di lasciarsi annebbiare da apologie edificate da motivazioni irrazionali. Ma non è da questa confessione che un’opera storica come il Secolo breve (e altri studi di Hobsbawm) perde la sua credibilità insieme a quel valore di bilancio asettico e  di analisi fedele, poiché  sono gli uomini a scrivere la Storia e fino a quando non saranno sostituiti da menti artificiali, esenti da emozioni, religioni, e sentimenti, dovremo accontentarci  di leggere i fatti  passati attraverso le interpretazioni  di  diverse  coscienze. L’auspicio è di trovarne sempre di  più appassionate, lasciando alle false discipline quelle ormai plasmate dal torpore dell’indifferenza.

Sabina Corsaro