L’Italia ai tempi della crisi
Non riuscirebbero a sostenere una spesa imprevista di ottocento euro, o una settimana di ferie lontano da casa. Non possono assicurarsi un pasto proteico adeguato ogni due giorni, oppure riscaldare a sufficienza la propria abitazione. Sono le famiglie italiane del 2011 fotografate dall’Istat: il 28,4% delle persone residenti in Italia sono a rischio povertà o ad esclusione sociale, una media ben più alta di quella europea che si attesta al 24,2%. Rispetto al 2010 c’è stata una crescita di 3,8 punti percentuali a causa dell’aumento della quota di persone a rischio povertà (dal 18,2% al 19,6 %) e di quelle che accusano una severa deprivazione (dal 6,9 % all’11,1%).
Un quadro allarmante e indice di situazioni difficili e di forte disagio, confermato anche dalla Caritas che, nella propria relazione “I ripartenti. Povertà croniche e inedite. Percorsi di risalita nella stagione della crisi”, ha descritto le esperienze di povertà nel nostro paese.
Gli italiani che, sempre nel corso del 2011, si sono rivolti alle strutture della Caritas rappresentano il 28,9% del totale; una percentuale che arriva al 48,2% nel Mezzogiorno. I servizi richiesti variano dagli alimenti ai prodotti per neonati, fino ai biglietti per viaggi, i viveri, i servizi per l’igiene personale; non mancano neanche richieste di lavoro o di sussidio economico (nel 20,4% dei casi), che la Caritas soddisfa principalmente attraverso l’erogazione di un prestito o del pagamento di bollette, di affitti, di prestazioni sanitarie.
Il rapporto sottolinea non solo l’aumento del fenomeno, ma anche le sue molteplici sfaccettature: le storie sono tra le più diverse, spesso accomunate da patologie socio-sanitarie che finiscono per coinvolgere l’intera famiglia, oppure caratterizzate da lavoro precario, in nero, saltuario o di situazioni di cassa integrazione che rendono difficilissimo il soddisfacimento dei bisogni anche quotidiani. Casalinghe e pensionati, una volta eccezione tra l’utenza Caritas, sono ora diventati la “regola”. A rivolgersi alle strutture non sono più quindi solo i senzatetto e i disoccupati, ma spesso anche genitori separati o persone con un lavoro talmente “debole” da non consentire una situazione di benessere, sia economico che psichico. È stato rilevato come molti problemi di carattere occupazionale siano sopraggiunti all’improvviso o anche dopo molti anni, se non decenni, dall’inizio dell’attività lavorativa.
Nonostante indici di peggioramento rispetto agli anni scorsi, il rapporto parla anche di “ripartenti”, di segnali di speranza e di desiderio di ripresa. Non solo aiuto momentaneo, quindi, ma anche riqualificazione professionale, recupero della scolarità, formazione: la volontà di rimettersi in gioco è molto forte. Le comunità locali si impegnano a contrastare la marginalità sociale, ma ciò che manca è un vero sostegno a questa voglia di ricominciare: l’età- in molti casi adulta, che non aiuta- e un mondo del lavoro di qualità sempre più bassa-in alcuni casi di evidente sfruttamento o di sotto-retribuzione- non permettono un’adeguata soluzione ai problemi e una risposta a chi, nonostante tutto, cerca di ottenere un’altra chance nel proprio paese.
Mariangela Celiberti