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Mille splendidi soli: dalla parte delle donne

Chi ha letto Il cacciatore di aquiloni o ha visto il film tratto dall’omonimo romanzo, conoscerà già Khaled Hosseini e la sua straordinaria capacità di trasformare ogni parola, ogni immagine, in poesia, trasportando il lettore all’interno di atmosfere magiche e crude al tempo stesso. Mi riferisco ovviamente ad uno dei personaggi principali ed immancabili e del primo romanzo e di questa sua ultima fatica letteraria, Mille splendidi soli : parlo dell’amato-odiato Afghanistan che compare già in copertina attraverso il contrasto tra il giallo  delle rocce e il rosso chiuso del velo della donna; tra il giallo del sole e il rosso della terra, cupo come cupa è la vita delle donne protagoniste di questa meravigliosa storia.

Se, infatti, ne Il cacciatore di aquiloni si raccontava la storia di un’amicizia tra due bambini poi divenuti uomini in mondi e società diversi, qui Hosseini rivolge la sua attenzione verso le donne afghane, alle quali dedica il romanzo, presentandoci due figure femminili, socialmente e culturalmente agli antipodi ma unite dal desiderio forte di affermazione all’interno della maschilista organizzazione sociale afghana. Mariam ha quindici anni e vive in una kolba di legno in cima ad una collina, lontano dal mondo “civilizzato” con la madre Nana (personaggio emblematico per la formazione della ragazza), donna triste e sconsolata il cui unico obiettivo è quello di proteggere l’ingenua figlia da un padre troppo assente («Offre gelato ai figli degli sconosciuti. E a te cosa offre, Mariam? Storie di gelato»)., insegnandole cosa sia la sopportazione per una harami (una bastarda) come lei.

Nana disse: «Imparalo adesso e imparalo bene, figlia mia. Come l’ago della bussola segna il nord, così il dito accusatore dell’uomo trova sempre una donna cui dare la colpa. Sempre. Ricordalo, Mariam.». L’unico desiderio della giovane, che mal sopporta il comportamento rassegnato della madre, invece, è poter vivere col padre (che aspetta ansiosa ogni giovedì per incontrarlo), poter vedere Herat, poter conoscere i suoi fratelli e sorelle, poter andare a scuola, al cinema e poter finalmente essere lei la protagonista attiva di tutti quei racconti fantastici, che la madre s’affretta sempre a liquidare come fumo negli occhi.

Laila nasce nell’aprile del 1978 a Kabul in quella che verrà ricordata come la notte della rivoluzione. La sua vita è completamente diversa da quella vissuta da Mariam: figlia di un professore, amante della cultura, va a scuola e nel tempo libero cerca di consolare la madre ormai spenta per la morte dei due fratelli partiti per la jihad,  ma un tempo vitale e gioiosa. Nella piccola Laila però cresce la voglia di vivere, di giocare, di amare: e se si rimprovera spesso di non aver potuto versare molte lacrime al funerale di quei fratelli quasi estranei (perché troppo piccola al momento della loro morte), non riesce a rimproverarsi di amare, invece,  il dolce Tariq , come un fratello, perché compagno di giochi e pronto a difenderla sempre dai dispetti degli altri bambini, nonostante gli manchi una gamba per esser saltato sopra una mina.

Mariam e Laila, così diverse, appartenenti a stati sociali agli antipodi, eppure così simili e così sorprendentemente vive, nonostante la guerra, nonostante le mine, nonostante la cattiveria degli uomini, s’incontreranno in maniera imprevedibile, donandosi reciprocamente, dimostrando come la pace tra gli uomini e le donne, la collaborazione e soprattutto l’amore possano essere mille volte più forti di qualsiasi conflitto.

Maddalena Vecchio