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Onora il padre e la madre

Due fratelli decidono di organizzare una rapina nella gioielleria di famiglia. La rapina a colpo sicuro, fatta per risollevare le sorti finanziarie dei due, si rivela un flop di sangue, che porterà ogni suo protagonista ad un’escalation di violenza e disperazione.

Questo film, diretto magistralmente da Sidney Lumet e altrettanto magistralmente interpretato da Philip Seymour Hoffman e Ethan Hawke, rappresenta l’ennesima perla nichilista di questi mesi, dopo gli stupendi “Non è un paese per vecchi“, “Il petroliere“e “Sweeney Todd“. Un thriller scandito da un solo episodio, vissuto da più punti di vista attraverso la tecnica del flashback, che caratterizza l’intera pellicola. Obbiettivo del flashback è trasformare un fatto ignobile in una condanna senza scampo contro personaggi vuoti e incapaci di amare.

Il tema cardine è la violenza scatenata dalla stupidità, in ambito famigliare e quindi individuale, una metafora su come la normalità spesso si traduca in formalità e assenza di comunicazione. La famiglia da pubblicità viene scardinata pezzo per pezzo e analizzata nel suo momento di crisi, dove i ruoli stereotipati sono trappole senza via d’uscita. Infatti la rapina in sé diventa tragedia quando la manifestazione individuale non trova freno nell’affetto dei propri cari, ma si trasforma in una valanga che si conclude a ritroso, la colpa del figlio ricade sul padre che invece di perdonare uccide.

Il personaggio di Andy fa da filo conduttore all’intera vicenda: apre il film con una scena di sesso in cui non fa altro che specchiarsi, segno della sua incapacità affettiva verso gli altri, organizza la rapina, e chiude il film chiedendo perdono al padre . In ogni caso non c’è redenzione che tenga: nel momento in cui Andy trova un barlume di speranza per sé stesso ammettendo al padre l’accaduto, invece del perdono arriva la morte.

Gli attori, a dispetto delle cineprese quasi sempre immobili, sembrano sempre voler fuggire dalla scena, come peccatori in fuga dal giudizio di Dio. La sceneggiatura rapporta i personaggi tra loro con un linguaggio biblico e formale, , contraddetta dalla mimica e dai gesti, dimensione amplificata spesso dall’assenza di musica di sottofondo, che permette allo spettatore di sentire i passi, i respiri, la pesantezza di vite fuori controllo. La colonna sonora, che incalza sempre con uno stesso tema, si fa sentire soprattutto nei momenti in cui si passa dall’analisi di un protagonista all’altro. Un film di pancia, sicuramente non per tutti ( e non mi riferisco solo ai minori di quattordici anni). Lumet dall’alto dei suoi 83 anni riesce lucidamente a fare un’analisi creativa e arrabbiata dell’io umano e dei suoi limiti.

Da vedere assolutamente.

Rosanna Migliore