Pubblicato il: 17 Novembre, 2008

Quando il teatro incontra la vita

Ripensare la propria vita, il senso della propria “missione” umana e professionale vivendo sulla propria pelle quella sofferenza che è sinonimo di autenticità. Questa la profonda motivazione interiore del regista e attore Marco Baliani, che nel suo libro Pinocchio nero racconta in forma diaristica le tappe del viaggio in Africa intrapreso con l’Associazione Amref Italia per il recupero dei ragazzi di strada della periferia di Nairobi. Il teatro come strumento sociale, come fucina che consenta di strappare dalla strada, dalla droga e da una vita di espedienti i chokora – abitanti delle baraccopoli sorte sulle discariche della città, in fuga dalle proprie famiglie sin dall’infanzia – considerati oggetti-spazzatura, divisi in bande armate rivali. Un’esistenza già consumata a dieci, dodici anni, dalla quale è dura staccarsi per fare un salto verso l’ignoto, seguendo una strada sconosciuta quale può essere quella dell’arte scenica. Tra l’agosto del 2002 e il luglio del 2004 una serie di workshop incentrati sulla pratica teatrale porterà il gruppo all’allestimento di Black Pinocchio, che debutta nell’agosto 2004 al Bomas Theatre di Nairobi, prima tappa di una tournèe che porterà più volte la compagnia in Italia. Il lavoro di regia mira unicamente a fornire gli strumenti giusti per stimolare la creatività e la libera espressione individuale, nella più vasta ottica di un teatro PER e CON i ragazzi, un teatro che oggi più che mai deve concentrarsi sui bisogni delle nuove generazioni, attraverso una struttura drammaturgica che ne restituisca la giusta chiave di lettura. Perché, dunque, un Black Pinocchio, recante il segno della diversità dall’originale collodiano?

Perchè senza dubbio quella di Baliani è una riscrittura scenica che adatta la materia romanzesca alla cultura che la incarnerà sul palcoscenico, alle storie dei ragazzi coinvolti nel progetto, storie di abbandono e di solitudine nell’affrontare un mondo ostile. Nella magia teatrale, infatti, sembra realizzarsi una trasformazione speculare a quella pinocchiesca, dalla rigidità legnosa dei corpi-oggetto nella discarica alle marionette mosse sulla scena, fino alla scoperta di un’identità umana, di un passaporto – che i piccoli attori riceveranno in occasione del loro viaggio in Italia – come testimonianza di una vita degna di essere definita tale. E’ questo il senso ultimo del lavoro di Baliani in Africa, portato avanti per improvvise intuizioni, per scoperte ed esperimenti sul campo, all’insegna di una disorganicità che certo non consente una ricostruzione analitica della messa in scena, perché nel COME e non nel COSA è da ricercare la chiave di questa esperienza. Come ridare significato al lavoro scenico, come entrare in sintonia con un’altra cultura, come pretendere di salvare la vita a tanti disperati senza armi né soldi. La risposta sta nella natura archetipica del teatro, capace di parlare con il corpo e di ridare voce a dei corpi morti, oltre ogni barriera culturale e sociale.

Elisabetta La Micela

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