Quando Silvia Avallone non era famosa
Non posso dire di aver conosciuto Silvia Avallone. Prima dell’intervista non avevamo mai parlato, se non per un saluto occasionale. Certamente la incrociai cinque o sei anni fa a Bologna, dove studiavo. Era l’amica di una compagna, come ci si chiamava in quegli ambienti, attorno al circolo universitario di Rifondazione Comunista. La compagna era di Piombino ed era iscritta, come lei, al corso di laurea in Filosofia. Silvia veniva da Piombino, ma era originaria di Biella. Anche il suo ragazzo, credo, era un compagno. La circostanza sarebbe di per sé insignificante, se non fosse per “Acciaio”. Silvia non faceva politica, essendo in quegli anni assorbita dallo studio. Già allora la letteratura era la sua vocazione, ma il clima culturale, che senza dubbio dovette respirare, era quello dei giovani figli della borghesia toscana, meridionale e lombarda, che sognavano la rivoluzione (ma forse dovrei scrivere con la ‘r’ maiuscola), o qualcosa di simile. Nessuno di loro faceva mestieri non intellettuali: ricercatori, docenti, al massimo operatori call center o camerieri saltuari, per pagare gli studi. E quanto più distanti si era dal lavoro materiale, tanto più se ne anelava la comprensione, la vicinanza. Ricordo un grande quadro di Lenin, sul muro di quel circolo. Il libro è ambientato in una Via Stalingrado immaginaria; quel titolo, “Acciaio”, in russo si direbbe Stalin. Oggi Silvia è cresciuta ed è, a giusto titolo, una giovane promessa del mondo letterario italiano. Il suo primo romanzo ha l’ambizione dell’opera realista, ma porta intatta, come una stigmate, l’eco di quegli astratti furori operaisti. A molti è piaciuto. La stampa di destra, che tre anni fa l’avrebbe massacrato, lo ha accolto bonariamente, il ché non è un buon segno. Forse è un bell’affresco di realtà, non un capolavoro. Anche chi lo ama, concorda che sul linguaggio e lo stile sia da rimandare a Settembre. Certo, Silvia ha un grande merito: l’aver spiegato, meglio di qualsiasi analisi sociologica, le cause materiali della morte per asfissia della democrazia italiana, uccisa dall’indifferenza ‘dal basso’ più che dalla prepotenza dall’alto. Non è poco.
Enrico Sciuto