Rileggere “La Rivoluzione Liberale”
Ottantacinque anni fa, un ragazzo torinese pubblicava un libro con l’editore “Cappelli” di Bologna. Aveva 23 anni, si chiamava Piero Gobetti e di mestiere faceva il giornalista e l’editore. Dalla testata che dirigeva, aveva tratto il titolo: “La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia”. Il libro è una diagnosi delle odierne patologie italiane, dunque non “sembra scritto ieri” ma in questi giorni. Secondo Gobetti, la costruzione di uno Stato liberale moderno- di cui oggi, anno di grazia 2009, il nostro paese è ancora privo- ha come necessario presupposto l’educazione degli italiani a una morale di autonomia, al fine di renderli individui autonomi e responsabili. Tutto parte dalla critica della borghesia italiana: “Le classi borghesi mancano di una coscienza capitalistica e liberistica e finiscono per adeguare il merito all’intrigo, dando vita a una rete d’interessi creati con la demagogia finanziaria”. Tra industria e liberalismo si scava un abisso, a causa dello “spirito dilettantesco e parassitario” degli industriali italiani. Il prodotto della mancanza di vera imprenditorialità è un intreccio tra politica ed economia che sostituisce la “propensione al rischio”. In Italia, insomma, si manifesta nel rapporto tra Stato e cittadini una dinamica inversa rispetto a quella propria delle democrazie liberali. Sul piano economico, vi è la tendenza a inseguire le prebende statali, sottoforma d’impiego pubblico, sussidi, e sodalizi, anche illeciti, tra politica e affari. Sul piano politico, si ha il ripiegamento nel proprio ‘particulare’, attraverso il disprezzo per la legalità e la dimensione pubblica, per la funzione sociale dello Stato e delle imposte. Al contrario, una società liberale è caratterizzata da autonomia in campo economico, e da responsabilità personale e rispetto delle regole, in quello politico. Perciò in Italia non esiste una destra liberale e moderna, dotata di un profilo legalitario. Le destre sono consorterie, mentre la sinistra si divide fra un massimalismo impotente e un “collaborazionismo” riformista, integrato nella palude consociativa e incapace di un’opposizione strategica. Il fascismo non fu dunque un fenomeno nuovo ma “la rivalsa dell’oligarchia cortigiana e piccolo-borghese che governa l’Italia da molti secoli, soffocando ogni iniziativa popolare”. L’arretrata borghesia italiana, insomma, rifiuta il patto tra i produttori, preferendo l’alleanza col parassitismo dei ceti assistiti, che vivono di prebende e clientele. Il fascismo e il suo consenso di massa, tra ceti medi e classi popolari, furono le estreme conseguenze di questa tendenza. La ristampa del saggio reca una prefazione di Paolo Flores D’Arcais. Questi coglie l’attualità del problema, ma lo esamina in chiave etica e non sociologica. Non chiarisce che il blocco sociale che sostiene l’attuale maggioranza è per composizione lo stesso che ha sostenuto il regime fascista e i governi della “Prima Repubblica”. Rileggiamo Gobetti, anche nelle scuole.
Enrico Sciuto