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Shoefiti a Catania?

Da qualche tempo ormai in molti se ne saranno accorti. Ci troviamo in Via Alcalà, centralissima strada di Catania, proprio alle spalle di Piazza Borsellino. Alla fine della via, sopra i fili telefonici, penzolano decine di paia di scarpe, legate tra loro dai lacci. Sebbene qualcuno abbia definito le scarpe penzolanti come un pericolo per la circolazione e abbia addirittura gridato, dalle pagine del quotidiano più letto in città, all’emergenza sicurezza, in realtà lo shoefiti (così si chiama il fenomeno in questione) è qualcosa di più che un semplice passatempo. Il nome è dato dall’unione tra shoe (scarpa) e graffiti e nasce nelle zone rurali e urbane degli Stati Uniti come segno del folklore adolescenziale. Nel corso di qualche anno lo shoefiti si è diffuso in America del Sud, Europa e anche in Italia. Diverse sono le teorie legate alla sua nascita: secondo alcuni prende vita nell’ambito militare, dove i soldati, finito il periodo di leva, usavano legare tra loro gli anfibi militari e lanciarli. Altrettanto disparate sono le interpretazioni date al fenomeno: appendere le scarpe ai fili elettrici o telefonici serve da segnale per indicare che nella zona vi è spaccio o consumo di droghe, soprattutto cocaina o eroina, quasi a indicare che una volta fattone uso, non potrai più lasciarle, come le scarpe appese al filo. Secondo altri invece le scarpe vengono appese per commemorare l’omicidio o la morte di un membro della banda, per tenere lontano i fantasmi oppure per circoscrivere luoghi dove è possibile compiere furti. In quest’ultimo caso le calzature cambiano a seconda del diverso momento della giornata. Altre spiegazioni collegano lo shoefiti al bullismo, alla fine della scuola, al matrimonio o alla perdita della virginità, come in Scozia. Altre volte, più banalmente, complice è la noia o l’ubriachezza. E mentre il fenomeno è apparso di recente anche in molti film, in Nuova Zelanda, lanciare gli stivali, è diventato un vero e proprio sport. Chissà quale di questi significati potremmo attribuire al caso catanese?

Giuseppina Cuccia