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Tino Vittorio: “Un mito per l’unità? Fuori dal Risorgimento”

«Le nazioni si inventano ogni giorno. Ogni giorno c’è bisogno di inventare i motivi dello stare assieme», dice Tino Vittorio. La scrivania è piena di oggetti, mentre fuori dalla Facoltà di Scienze Politiche ci sono il mare e il porto di Catania. Insomma: la strada sarà pure intitolata al Gran Re d’Italia, ma termina pur sempre sul mare, ovvero su chissà dove. Un mito ci vuole, non fosse che per il gusto di andare oltre, di continuare a cercare.

 

Prof. Vittorio, non sembra che il 150° d’Italia abbia avviato una riflessione sulle ragioni dell’unità. L’Europa politica non sta meglio e il Belgio è sull’orlo della dissoluzione.

L’unità nazionale potrebbe venir meno?

Sarebbe un guaio. Il processo unitario è stato problematico: le compagini precedentemente installate nella penisola erano tutte ‘nazionali’, realtà fortemente identitarie. Mettere assieme entità politiche dai tratti così peculiari è stato un problema. Oggi facciamo i conti con la crisi economica, con l’emergere delle differenti vocazioni di ciascun pezzo d’Italia e con le pulsioni che le allontanano da Roma, rivolgendole al Mediterraneo e oltre le Alpi.

Manca una progettualità di ampio respiro?

L’ultimo valore fondante del paese è stato l’antifascismo. Dopo la sua rimozione e il depotenziamento di quel riferimento all’unità, costituito per decenni dalla Costituzione, non si è più riusciti a trovarne di nuovi.

 

L’Italia potrebbe reinventarsi in rapporto alla sua posizione geografica, lì al centro del Mediterraneo?

Il Mediterraneo è un dato assai debole per definire la nostra identità, perché appartiene a culture diverse. E’ pensato, inoltre, in una dimensione più debole del suo dato: in realtà, è un pezzo d’oceano che si è riversato dalle nostre parti attraverso Gibilterra. Abbiamo a che fare con l’oceano e siamo effettivamente ‘oceanici’. Se vogliamo ricostruire l’identità, se vogliamo riappropriarci di questo mare, bisogna ripartire da questo dato, riclassificando le gerarchie territoriali del paese.

In che modo?

Pensare che la Sicilia sia la testa e i piedi siano le Alpi. Se accettassimo ciò, potremmo orientarci verso quello che è oggi il cuore del mondo, l’oceano Pacifico e l’oceano Indiano. Questo è il punto di riferimento che l’Italia dovrebbe assumere. Se lo facesse, muterebbero le gerarchie delle terre che la compongono. Assieme ai loro interessi economici.

Da dove ripartire?

Da una grande stagione di portualizzazione. Il paese è scarsamente portualizzato e siamo tagliati fuori da ciò che avviene nelle rotte oceaniche, sulle coste del Maghreb e del Mashrek, ad esempio. Il porto è un luogo essenziale di collegamento nelle transazioni economiche internazionali. L’Italia fa poco; non è abituata a pensare che la Sicilia, il Mezzogiorno e la sua costa, anziché le Alpi, possano essere il fulcro su cui far leva per reinventarsi in questo nuovo millennio.

Ha spesso definito l’unità d’Italia “un cascame del gioco internazionale delle grandi potenze”. I rapporti internazionali hanno invertito questa tendenza favorevole all’unità o la stanno ancora corroborando?

Siamo tornati all’Italia “espressione geografica” e manca il coraggio di indicare un punto di partenza per la sua riaggregazione. La riclassificazione del territorio deve partire da ciò che sta avvenendo internazionalmente: il cuore del mondo pulsa ormai nell’oceano Pacifico e nell’oceano Indiano. L’interlocuzione di queste aree con l’Europa, che avviene per la via più conveniente, quella marittima, ci offre l’opportunità di calarci in questa nuova era oceanica.

Durante il Risorgimento e la Seconda guerra d’Indipendenza, l’azione diplomatica straniera è stata un ostacolo o un incentivo all’unificazione?

Ho l’impressione che quella che la storiografia ufficiale ha chiamato “Seconda guerra d’Indipendenza” sia stata in realtà una guerra della Francia contro l’Austria. La Francia utilizzò Cavour per metter fuori dalla penisola gli austriaci. L’obiettivo era tagliar fuori l’Impero austriaco dal Mediterraneo, cioè dalle opportunità d’espansione aperte con la “Questione d’Oriente”.

 

Niente “rivoluzione nazionale”, dunque?

Al massimo fu una corsa alla conquista del Mediterraneo. L’Inghilterra possedeva già due punti strategici cruciali, quali Malta e Gibilterra. La Francia invece si mise a correre: da un lato, puntava al protettorato sulla penisola; dall’altro, alle terre del Mediterraneo lasciate libere dai turchi. Cavour non ambiva che al Lombardo – Veneto, e rimaneva legato alla politica dei Grandi. Mai si sarebbe sognato di distaccarsene.

 

La storiografia risorgimentale non serve, dunque, al recupero di un mito fondativo?

No, ogni ‘mito’ d’allora è ormai compromesso. E’ impopolare, oltre che inattendibile. La storiografia sul Risorgimento dimentica molte cose. Malta, ad esempio: è stata sottratta al Regno delle Due Sicilie per passare prima sotto la Francia e, infine, all’Inghilterra. Da allora, non appartiene più al Mezzogiorno d’Italia. Parliamo di un’isola importante. Se non fosse stata nelle mani degli inglesi, chissà come sarebbe andata a finire la seconda guerra mondiale.

Enrico Sciuto