Pubblicato il: 10 Febbraio, 2009

Un “cadavere eccellente” risorge sulla scena

un-cadavereIl monologo ‘Na specie de cadavere lunghissimo costituisce un vibrante omaggio del regista Giuseppe Bertolucci e dell’attore protagonista, Fabrizio Gifuni, alla figura di Pasolini, a trent’anni dalla sua morte. La piéce è costruita su un collage dei testi dell’ultimo periodo dello scrittore, dagli Scritti corsari, alle Lettere luterane, a La nuova forma della meglio gioventù, fino ad un Abbozzo di una sceneggiatura per un film su San Paolo, mescolati ai versi friulani della raccolta Poesie a Casarsa,  e al poemetto Il pecora del poeta milanese Giorgio Somalvico.

Uno spettacolo interamente giocato su dinamiche oppositive: tra padre e figlio, tra natura e cultura, tra vittima e carnefice. Gifuni sembra incarnare un pensiero itinerante, assumendo due diverse identità e girovagando tra gli spettatori. La scelta di collocare il pubblico intorno al protagonista, già seduto ad uno dei tavolini da bar che verranno occupati dagli spettatori, rompe la regola della frontalità teatrale tra platea e palcoscenico, nell’impossibilità di sottrarsi a ciò che accade. Un agone tragico nel quale si consuma l’atto d’accusa verso la società dei consumi, vera dittatura che irreggimenta le coscienze borghesi, intorpidite dall’edonismo, dal culto della merce e alla deriva verso la degradazione antropologica. L’eco pasoliniana rimbomba nella coscienza di noi che ascoltiamo attraverso la straordinaria intensità scenica di Gifuni che, con un accento settentrionale, ci guarda negli occhi e ci sfiora, manifestando la disperazione per i nostri volti irriconoscibili, quasi  a farci sentire complici della sua morte. Sono gli spettatori, seduti tranquillamente al bar, il mostro che Pasolini non poteva più sopportare. L’attore inizia a denudarsi, si allontana per andare dietro un grande tulle che fa intravedere uno spaccato, una sorta di camerino, da cui riappare indossando i veri e propri costumi di scena: abito e camicia bianchi, cravatta e scarpe nere. La sua voce si fa più amplificata e più aulica, assai meno colloquiale, quasi sacrale, restituendoci un brano de La nuova forma della meglio gioventù, incentrato sul rapporto con le nuove generazioni.

Ma il cancro morale corrode sempre di più il suo corpo, l’agonia partorisce in un balzo improvviso un’altra identità. Basta appena una parziale svestizione – via la giacca, via la cravatta – e di fronte a noi non c’è più Pasolini, ma il suo alter ego Pelosi. L’assassino veste panni borghesi pur essendo un borgataro, un ragazzo di strada, ora fermo ora saltellante fra i tavoli, con rapidi e stridenti passaggi vocali, consuma il suo delirio vagabondando per Roma sull’Alfa dello scrittore. Il “riccetto” si è però trasformato questa volta in un feroce omicida: Gifuni ne segue con ansia e macabra vitalità i  pensieri e i movimenti, l’innocente leggerezza con cui si macchia di una colpa orrenda. Le verità quasi profetiche rivelate nelle opere pasoliniane sembravano definitivamente messe a tacere, ma risorgendo oggi nell’eternità del teatro non possiamo non ascoltarle e non sentirle di bruciante attualità.

Elisabetta la Micela

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