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Veltroni non è Leopardi

Saremmo “un Paese cui è estranea la convivenza civile, dove ci si divide e ci si azzuffa, invece di collaborare al bene comune: un Paese senza costume nazionale”. Così Walter Veltroni motiva la sua uscita di scena, nell’intervista rilasciata a “Farefuturo”. È un ragionamento che colpisce, anche per il mezzo e il luogo adoperati nell’esprimerlo. Il primo è una citazione leopardiana, l’altro la rivista della Fondazione di Gianfranco Fini. Trovando disdicevole far politica col Machiavelli in mano, Veltroni si affida allo “Zibaldone”, mentre sarebbe stato più utile consultare in merito persino l’innocuo Guicciardini, senza doversi per forza compromettere con Gramsci. E poi, perché affidare queste riflessioni, le uniche interessanti tra quelle espresse in un anno e mezzo di segreteria, ad un periodico della destra italiana? Non sarebbe stato il caso di discuterle nelle riunioni del suo partito, o forse le uniche “risse endemiche” che valgono una riunione, sono quelle con D’Alema? Se non le capacità, Veltroni ne avrebbe avuto il dovere, da segretario e fondatore di un soggetto politico. Manca un “costume nazionale” a questo Paese, e la politica non è in grado di elaborare una soluzione al problema, come ad altri più concreti. Trattare ciò come un difetto di leadership è soltanto la misura di un degrado culturale. L’assenza di costume nazionale è l’espressione di storture secolari nelle relazioni sociali ed economiche, che investono i corpi intermedi e la struttura amministrativa dello Stato, allentando i vincoli d’identificazione in un patrimonio istituzionale comune. Tutto ciò finisce per riverberarsi sulla classe politica, che è solo lo specchio della società civile. Pensare, come ha fatto Veltroni, che la disgregazione corporativa e la frammentazione endemica dei rapporti sociali possano essere risolte con atti di volontarismo, sottoforma di un riformismo dall’alto o peggio, di bon ton istituzionale, è pura illusione. Il PD non ha un progetto politico: questo vizio d’origine non sarà certo debellato con una leadership più attraente o magari ampliando le alleanze, secondo le nostalgie frontiste prodiane. La via d’uscita per l’opposizione potrebbe passare attraverso una profonda ed empirica riflessione politico-culturale, capace di riannodare i fili identitari di una società nazionale disgregata, in relazione alle vicende italiane degli ultimi centocinquant’anni. Solo allora i referenti sociali non saranno più un’incognita e la sua azione potrà tornare ad avvalersi del contributo di grandi opzioni collettive. L’incontro mancato tra l’ala repubblicana e radicale del movimento risorgimentale e la sinistra socialista è forse all’origine di questi problemi. Tuttavia, non si partirebbe da zero, come la riflessione di Gobetti e l’esperienza del Partito D’Azione sembrano testimoniare. Servirebbe intanto non confondere il senso comune con i potenti mezzi che lo rappresentano e lo trasfigurano, storicamente in mano a chi della democrazia non sa che farsene.

Enrico Sciuto