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Vite parallele nella letteratura, tra catarsi e schizofrenia

Nell’ambito della teoria della letteratura è aperto il dibattito su quanto del pensiero e della vita di uno scrittore si riversi nelle pagine di un romanzo. Molto più di quanto si possa immaginare: paradossalmente infatti, scrivere un romanzo non significa tanto inventare un mondo avulso dalla realtà, quanto creare una dimensione parallela nella quale l’inconscio dello scrittore, con tutti i suoi traumi, desideri inespressi e travagli emozionali, possa esprimersi più o meno liberamente. Ciò avviene persino nell’ambito di un genere letterario apparentemente lontanissimo dal quotidiano,  un genere sdoganato solo negli ultimi anni e inflazionato, un genere passibile di innumerevoli interpretazioni: il fantasy. Prenderemo in considerazione tre grandi rappresentanti della letteratura fantastica, osservando come ognuno di essi proietti i propri ricordi, i propri problemi o i propri desideri all’interno del libro. E’ così possibile leggere “Il Signore degli Anelli” di J.R.R.Tolkien come una grande allegoria della guerra, non della guerra in sé come topos letterario, ma come rielaborazione dell’esperienza bellica dello scrittore, che combatté durante la prima Guerra Mondiale; come non ricollegare inoltre le sue spiccate attitudini linguistiche, dimostrate sin da giovane, all’invenzione di nomi e linguaggi nel proprio capolavoro? Allo stesso modo “Le cronache di Narnia” di C.S. Lewis sono strettamente collegate all’esperienza religiosa dello scrittore irlandese, che visse una lunga “crisi spirituale” prima di convertirsi al cristianesimo anglicano: la vicenda dei quattro piccoli protagonisti potrebbe quindi essere letta come un percorso di fede dallo scetticismo all’ascesa nel Regno dei Cieli. Un caso molto interessante è poi quello di R.E. Howard, autore di numerosi “cicli del fantastico”: la parabola esistenziale di questo scrittore si snoda all’insegna della solitudine, della depressione e della reclusione all’interno delle mura domestiche; colui che, nei propri romanzi, andò lontanissimo nel tempo e nello spazio, non si mosse dal proprio paese per tutta la vita, un po’ a causa del carattere introverso, un po’ a causa del rapporto difficile con la madre, alla quale era legato da un rapporto quasi morboso fatto di amore e odio. Il personaggio di maggior successo di Howard, Conan il barbaro, può benissimo essere l’alter ego dell’autore, libero, nobile, avventuroso, forte, vincente; ed è nei suoi romanzi che Howard si affranca dall’ingombrante presenza materna affiancando all’eroe cimmerio occasionali donne-oggetto. Si tratta di semplice osmosi letteratura-vita? O è forse creazione di un mondo altro nel quale rifugiarsi e nel quale vivere per sempre, attraverso il quale liberarsi dai traumi esistenziali – la guerra, la crisi religiosa, la solitudine –  oppure ancora, libera espressione di una personalità latente, emersa solo nel momento della scrittura? Dove sono oggi Tolkien, Lewis e Howard? Giacciono nelle loro tombe o si aggirano fra le righe dei loro scritti?

Ornella Balsamo