Pubblicato il: 6 Dicembre, 2008

Barry Lyndon

Partiamo da una domanda e una piccola premessa. Esiste un film perfetto? Anzi, IL film perfetto? E se esistesse, da cosa dipenderebbe la sua perfezione? Esiste un numero di elementi molto consistente da considerare quando si analizza e si valuta un film, ma tentando di prendere in esame solo quelli principali possiamo concentrarci sull’aspetto tecnico e visivo (quindi, in primis, sulla regia, sul montaggio, sulla fotografia), sull’aspetto narrativo (il soggetto, la sceneggiatura, il modo in cui la storia viene raccontata), la recitazione, la colonna sonora.Se si vuole attribuire a un film l’aggettivo “perfetto”, bisogna che lo sia in tutti questi elementi, e che abbia anche quel qualcosa in più, la famosa “quinta marcia” che trasforma un semplice capolavoro in qualcosa di ancora migliore.

Barry Lyndon. 1975, Stanley Kubrick. Un certo Stanley Kubrick. Fedele al suo eclettismo che lo ha portato ad esplorare praticamente ogni genere cinematografico, dopo aver girato un film come Arancia Meccanica, si imbatte nella novella di Thackeray “Le memorie Barry Lyndon”, e decide di farne una trasposizione cinematografica. In realtà questa non fu esattamente la sua prima scelta. Kubrick aveva già in mente di girare un film su Napoleone (chissà come sarebbe venuto!), ma uscì prima nelle sale Waterloo (Bondarchuk, 1970), e dovette abbandonare il progetto. La sua attenzione si spostò allora su La fiera della Vanità, anch’esso un romanzo di Thackeray, ma abbandonò anche questo dopo che ne venne tratta una serie TV. Ecco allora che decise di dedicarsi anima e corpo a Barry Lyndon, e vedremo con quali risultati.

La vicenda raccontata dal film è semplice. Non è carica di valenze simboliche come alcuni precedenti lavori di Kubrick (parliamo naturalmente di un film come 2001: Odissea nello Spazio), e in effetti non si concentra nemmeno su un tema ben preciso (come può essere il sesso in Lolita, o la follia dell’uomo ne Il Dottor Stranamore), ma bensì è una storia nell’accezione più pura del termine. Un lungo, corposo, succulento racconto ricco di dettagli e divagazioni che segue una parte della vita di Redmond Barry, inizialmente giovanotto di belle speranze desideroso di conquistarsi una certa posizione sociale, alla fine deluso uomo avanti negli anni che ha visto tutte le sue aspirazioni frustrate. Ad accompagnarsi alla semplicità della storia, vi è anche la semplicità della narrazione. Il regista non tenta di complicare le carte sconvolgendo il piano temporale attraverso flashback o simili espedienti, ma mette in scena un dramma perfettamente tripartito, inserendo persino delle didascalie a introduzione di ogni “atto”. In effetti sappiamo fin dall’inizio che il povero Barry andrà incontro a un’inesorabile caduta. Kubrick apprezzò molto questo particolare della novella, tanto da dire che una delle cose che lo affascinò maggiormente fu proprio il sapere fin da subito il destino a cui sarebbe andato incontro il protagonista. Questo particolare, unitamente alla scelta di far procedere la narrazione attraverso l’uso molto ampio di voce narrante, ci rende dei veri e propri “spettatori onniscienti”. Vediamo Barry dibattersi e lottare in ogni modo per raggiungere i suoi obiettivi, ma sappiamo che andrà incontro a un inesorabile fallimento, aumentando così in maniera esponenziale i sentimenti che possiamo provare verso di lui. Quando si gira un film di tale durata (178′) basato pressochè interamente su un solo personaggio, non ci si può permettere di non rendere tale personaggio memorabile. E Redmond Barry Lyndon è sicuramente tale. Non è certo uno stinco di santo, né tantomeno una persona malvagia. È quello che comunemente verrebbe definito come “un povero diavolo”, che vorrebbe realizzarsi ma non ci riesce. E ci viene presentato con tante di quelle sfaccettature che è impossibile non riconoscersi in lui. Follemente innamorato di una donna, al punto da sfidare a duello un importante aristocratico, soldato, disertore, ancora soldato ma per un diverso esercito, spia, abile quanto truffaldino giocatore d’azzardo, marito tra i più fedifraghi e padre tra i più affettuosi, uomo d’onore, uomo finito. Attorno a lui scorrono, come dei capitoli (più o meno brevi e più o meno importanti) nella sua vita, i personaggi più svariati. Non vi sono storie parallele nel film, tutto è narrato dal punto di vista delle azioni di Barry, la colpa e il merito delle sue azioni sono interamente sue. Eppure, percepiamo un profondo senso di ironica arrendevolezza a quello che potremmo chiamare “destino” pervadere tutto il film. “È tutto inutile”, potrebbe addirittura essere la morale. Il modo in cui Kubrick dipinge la società del tempo (che poi non è solo quella di quel tempo) è crudo e feroce, e al tempo stesso distaccato, freddo. Attraverso i suoi occhi è come se vedessimo un nido di formiche, tutte indaffarate ad accumulare cibo, ignare che un qualunque bambino con un bastone può passare di lì in ogni momento e rovinare tutto in un attimo. Il cinismo che pervade l’opera trova il suo coronamento in due momenti ben precisi. Il primo, subito prima della sequenza di battaglia (evento topico nella vita di Barry), così introdotta dalla solita voce narrante, come sempre calma e tranquilla come se stesse raccontando una fiaba: “la prima esperienza di guerra di Barry fu una scaramuccia […] Questo scontro, sebbene non ricordato nei libri di storia, fu abbastanza memorabile per coloro che ne presero parte”. Una scaramuccia, nemmeno ricordata nei libri. Del resto già l’ambiente in cui si svolge, “un piccolo frutteto”, ci indica la pochezza di una battaglia che ha avuto un certo peso solo per coloro che l’hanno combattuta. Eventi che sembrano importanti a chi vi prende parte, ma che nell’ottica superiore delle cose non contano assolutamente nulla. Il secondo momento è nella didascalia finale, che recita così: “Fu durante il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono, buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri, ora sono tutti uguali”. Insomma, quasi a dire che tutto quello che abbiamo visto fare, le fatiche, i dolori, gli sforzi, è stato inutile. La morte è una “grande livella”, e vanifica tutto. Molto, molto cinico. E terribilmente realistico.

Visivamente il film è di una bellezza quasi dolorosa. Lo scopo di Kubrick era quello di ricreare il più fedelmente e naturalmente possibile l’atmosfera del diciottesimo secolo, e per farlo ha deciso di utilizzare esclusivamente luci naturali, o di candele, per illuminare i set durante le riprese. Onestamente in certe scene è davvero difficile credere che non siano stati utilizzati altri ausili. Basti pensare a momenti come l’incontro sul terrazzino tra Barry e Lady Lyndon, splendidamente illuminato dalla luce della luna, o a quello dell’ultimo duello. Che non si pensi dunque che il lavoro svolto da Kubrick e il suo direttore della fotografia, John Alcott, sia stato un mero esercizio di stile. La decisione di utilizzare unicamente la luce naturale giova immensamente alla pellicola, rendendola di una naturalezza estrema sia nella ripresa degli interni che degli esterni. L’apporto allo sviluppo tecnologico dovuto a queste riprese non è stato indifferente. Kubrick è sempre stato un pioniere (successivamente sarà proprio lui a introdurre, in Shining, l’uso costante della steady-cam), e per girare questo film ha utilizzato delle macchine da presa capaci di prestazioni impensabili per l’epoca. La fedeltà dell’immagine e ogni livello di distanza, dai campi lunghissimi ai primi piani, è impressionante, e ha permesso al regista di perfezionare ulteriormente due tecniche che già aveva proficuamente utilizzato in 2001: Odissea nello Spazio e in Arancia Meccanica: il grandangolo e lo zoom. Come non ricordare la danza delle astronavi sulle note del Danubio Blu di Strass, o l’inquadratura iniziale al Korova Milkbar, con Alex e i suoi tre soma seduti sul divano? Ecco, in Barry Lyndon queste caratteristiche sono elevate all’ennesima potenza. Si potrebbero citare moltissime scene, ma la più esemplificativa è probabilmente la scena dello scontro tra i due eserciti. Proprio come nella citata scena di Arancia Meccanica, inizia da un’inquadratura in primo piano che a poco a poco si allarga fino ad includere tutto l’esercito inglese, seguito da una carrellata laterale. Da qui parte tutta una serie di campi e controcampi, più o meno dettagliati, scanditi da una canzone militare inglese. Le inquadrature sono, nel pieno stile del film, per la maggior parte oggettive e distaccate (proprio per questo risulta ancor più particolare l’affascinante inquadratura che segue i piedi di uno dei soldati in prima linea). L’utilizzo alternato di movimenti di macchina e di inquadrature fisse è molto significativo. All’immobilità dell’inquadratura che raffigura l’esercito nemico, coincide la carrellata che segue quello inglese, carrellata che non si ferma neppure quando i nemici aprono il fuoco e iniziano a decimare gli inglesi. Non vi sono dettagli sui soldati caduti, non c’è tempo o voglia di dispiacersi: l’inquadratura continua senza esitazioni, così come i soldati continuano nella loro implacabile marcia. L’inquadratura si ferma solo quando viene colpito lo zio di Barry, e quest’ultimo lo soccorre portandolo via dal campo di battaglia. A questo punto l’inquadratura rimane su Barry e suo zio, ignorando la battaglia. Una lunghissima scena di avvicinamento a una battaglia che poi non vedremo…Perfettamente nello stile del film. A noi interessa solo quello che fa Barry, il resto è solo una cornice. Bella, elegante, ma solo una cornice.

Un altro aspetto su cui Kubrick ha lavorato duramente è stato quello di dare uno stile visivo ben preciso al suo film. Il regista prende a modello tutto il filone pittorico, sia ritrattistico che paesaggistico, settecentesco, specialmente quello inglese (Gainsborough, Hogart, Reynolds), ma anche di altri autori del periodo (ad esempio Hayez, laddove una scena d’amore tra Barry e Lady Lyndon è modellata sull’esempio del suo famoso dipinto “Il bacio”) per costruire le sue inquadrature. Inquadrature che spesso iniziano con un dettaglio, o un primo piano, e poi vanno allargandosi, e che altrettanto spesso iniziano con gli elementi in scena immobili, come fosse un quadro che prende vita. Questa scelta di rifarsi in modo così fedele alla pittura può essere letta in due modi diversi e opposti. Da una parte Kubrick potrebbe aver voluto ritrarre fedelmente il diciottesimo secolo, dall’altro potrebbe aver voluto ritrarre fedelmente il modo in cui il diciottesimo secolo si è trasmesso a noi attraverso l’arte, quindi filtrando la realtà attraverso gli occhi degli artisti che hanno dipinto i quadri a cui si è ispirato. Prendere per valida questa seconda ipotesi vorrebbe paradossalmente dire che il realismo del film è in realtà un “finto realismo” permeato delle suggestioni che nell’immaginario comune appartengono al diciottesimo secolo. In effetti questa interpretazione pare piuttosto valida (soprattutto nella seconda “aristocratica” parte del film, mentre la prima parte, “plebea”, appare più spontanea), visto anche il modo in cui Kubrick ritrae la società del tempo: classista, snob, composta dai più viscidi arrampicatori sociali e attenta solo alle apparenze.

Si potrebbe addirittura tracciare un parallelo con lo stile visivo di Arancia Meccanica. Anche lì la rappresentazione della realtà è estremamente stilizzata e funzionale, invece che a trasmettere il barocchismo del settecento, la vuotezza e lo squallore della realtà immaginata da Kubrick (e dall’autore del romanzo, Burgess). Due modi in apparenza opposti di rappresentare un’idea, una visione del mondo, ma che trovano il loro punto di contatto nel risultare in qualche modo “estranianti”, realisti e astratti allo stesso tempo. Senza sfociare in un’eccessiva voglia di cogliere a tutti i costi il riferimento interno anche dove non c’è, sembra piuttosto evidente una piccola citazione di Arancia Meccanica all’interno del film che stiamo trattando: la sequenza in cui seguiamo Lord Bullington nella casa di Barry è molto simile a quella in cui seguiamo Alex entrare nella Boutique musicale. Potrebbe essere solo un caso, ma conoscendo la rete di rimandi interni che accomuna tutti i film di Kubrick (e più in generale quelli di ogni regista con una ferma personalità e connotazione autoriale) è assai probabile che non lo sia.

La colonna sonora è superba, e ancora una volta Kubrick adotta la stessa soluzione utilizzata in 2001: Odissea nello Spazio e Arancia Meccanica, quella di non utilizzare brani originale appositamente creati per il film, ma di ricorrere a brani di musica classica. Dopo aver utilizzato composizioni di Strass in 2001: Odissea nello Spazio e del “dolce Ludovico Van” in Arancia Meccanica, ora è la volta di Handel, la cui Sarabande costituisce il tema principale del film. Come ebbe a dire una volta lo stesso Kubrick in un’intervista, perché comporre musica nuova quando si ha un repertorio di musica classica di altissimo livello e perfettamente in grado di esprimere ciò che si vuole dire? Dopo le musiche di livello più “basso” della prima parte del film (marce militari, o la danza folkloristica irlandese che accompagna una scena di ballo popolare), la scelta della composizione di Handel si rivela particolarmente felice, dal momento che, proprio come il film, è un brano lento, maestoso, triste, con un che di inquietante, che si accompagna perfettamente alla vicenda che accompagna e a volte si ha quasi l’impressione di stare assistendo a dei pezzi d’opera, tanta è la coralità di certi movimenti di macchina uniti alla musica. E ancora una volta è d’obbligo citare la scena della battaglia, accompagnata dalla marcia “The British Grenadiers” che dà a tutta la scena un certo effetto teatrale e ironico.

Uno degli aspetti più discussi di questo film riguarda la recitazione, particolarmente per quel che riguarda la prestazione dell’attore protagonista, Ryan O’Neal. Probabilmente non sarà un attore dalle grandissime doti recitative, ma per il ruolo è decisamente azzeccato, molto più di quanto non lo sarebbe stato un attore magari più quotato. Come disse Kubrick: “Ad esempio, nonostante siano tutti grandi attori, Al Pacino, Jack Nicholson o Dustin Hoffman sarebbero stati sicuramente errati in quel ruolo”. E in effetti Ryan O’Neal ha proprio la faccia a metà tra il furbo, l’ingenuo e lo sciocco che caratterizza il personaggio di Barry. Notevolissima in questo senso rimane la sequenza dell’incontro tra Barry e lo “Chevalier”, presunta spia inglese. La scena, estremamente patetica, lo vede tradire subito la fiducia dei suoi superiori rivelando la sua identità, spinto da un moto di patriottismo che lo porterà a sciogliersi in lacrime. O’Neal riesce ad assumere esattamente l’espressione patetica giusta per il momento, dando alla scena un qualcosa di grottesco, soprattutto se si pensa che poco tempo prima, alla faccia del patriottismo, Barry aveva disertato il patrio esercito. Altra scena notevole, e di ben altra caratura, è quella della morte del figlio, in cui sia O’Neal, sia quello che si potrebbe considerare il personaggio più importante del film (ma non al punto da poter essere considerata come co-protagonista), cioè la moglie di Barry, Lady Lyndon, interpretata da Marisa Berenson, forniscono un’ottima prova attoriale.

A proposito, interessante personaggio quello di Lady Lyndon. Arrendevole. Lo notiamo già al loro primo vero incontro, nella scena al tavolo da gioco: un lunghissimo gioco di sguardi, campo controcampo, una seduzione rapidissima a cui Lady Lyndon non riesce a sottrarsi. E in effetti il personaggio non riesce mai a risplendere di luce propria, rimane sempre succube del marito fedifrago senza mai riuscire a contare qualcosa. Trascorre la sua vita nella noia, senza controllo sui suoi beni e oggetti di un morboso attaccamento da parte del figlio maggiore. Si potrebbe quasi definire come un “non personaggio”, tanto è rappresentato in maniera passiva. Eppure, vi sono più sentimenti ed emozioni nascosti nei suoi occhi malinconici mentre guarda il vuoto col suo bambino accanto che in tutti gli altri personaggi secondari che girano attorno a Barry e che si credono grandi uomini.

Possiamo tornare indietro alla domanda iniziale. Esiste il film perfetto? Probabilmente la risposta più giusta sarebbe un oggettivo “no”. Ma nella valutazione di un film è impossibile restare totalmente oggettivi, specialmente quando il film in questione è un film come Barry Lyndon. L’opera omnia di Stanley Kubrick è uno di quei film che riesce seriamente a mettere in difficoltà. Perché? Perché è un film lento, misurato, calcolato, inesorabile nel suo incedere, in cui tutti gli elementi, narrativi, tecnici, formali, trovano un perfetto equilibrio. E fa davvero sorgere il dubbio che il film perfetto possa esistere.

Tomas Mascali

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