Pubblicato il: 14 Luglio, 2009

Marchionne l’irreprensibile

marchionneA chi serve quel Sergio Marchionne che con truce cipiglio scala intrepido le vette del mercato automobilistico internazionale? Certamente a FIAT. Sicuramente non all’Italia. L’uomo, si sa, è astuto e veloce. Si è avventato sulla crisi di Chrysler col tempismo di chi conosce a memoria i meccanismi d’assistenza statale all’industria automobilistica. Gli anni da amministratore delegato alla FIAT, insomma, gli hanno giovato. Da noi, tutti hanno gradito, entusiasti di poter vantare in tempi di magra questa nuova scoperta delle Americhe. In fondo, anche Cristoforo Colombo era sbarcato in altri lidi mentre la penisola versava in cattive acque, e nella storia delle italiche gesta non c’è conquistatore che si rispetti che non finisca per tracciare un confine sul Reno. Non che Marchionne non speri ancora d’accasarsi in Opel, in fondo un grande generale non scende mai dal suo cavallo bianco, a costo di morirci in groppa. La provincia italiana vi ha sbadigliato sopra fino a oggi, fino a quando quest’amministratore delegato (ora di “Chrysler”), fine d’occhio e svelto di mano, ha rammentato a tutti che due più due fa quattro. Dal 1899, anno di fondazione, FIAT toglie qui ciò che mette altrove. Ieri erano soltanto i contributi statali per la rottamazione, trasferiti direttamente dalle tasche degli italiani a Villar Perosa; oggi, segno dei tempi di grandeur, sono anche gli investimenti produttivi a spostarsi, per seguire un itinerario solo apparentemente più tortuoso. Da dove vengono gli asset offerti a Obama da Marchionne, se non dalle tasche dei contribuenti italiani? Come ha fatto i soldi FIAT negli ultimi decenni, se non reinvestendo i miliardi di tasse che lo Stato trattiene direttamente dalle buste paga di lavoratori dipendenti, fra i quali anche quelli “torinesi”, già spremuti così avidamente? Gli eroici leghisti, paladini della classe operaia, non diranno alcunché: in fondo, in TV passano i nomi di Pomigliano e Termini Imerese. Chi guarderà a Mirafiori, gigantesca metropoli industriale dismessa, o ad Arese, fabbrica non di auto, ma di cassintegrati? O la preoccupazione più seria: chi rimarrà a presidiare le frontiere e quali ronde vigileranno sulla quiete cittadina, se quanto prima agli italiani non rimarrà che inseguire Marchionne in Polonia, o magari in Romania, per lavorare in una fabbrica? Gli americani, in fondo, non saranno leghisti, ma mica sono scemi. In attesa di capire dov’è l’industria in Italia e su cosa si regge l’economia nazionale, possiamo avventurarci in due previsioni: 1. Berlusconi non si scomporrà per così poco, mentre D’Alema e Scalfari potranno continuare a leggere “Novella 2000”, al posto de “l’Unità” e “Repubblica”. 2. Lombardo non si scomporrà per così poco, mentre i lavoratori di Termini potranno rifugiarsi nel voto di protesta all’UDC o all’IDV. Di questi tempi non è poco.

Enrico Sciuto

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