Pubblicato il: 3 Aprile, 2009

Il mito dei bei vecchi tempi

il-mito-dei-bei-vecchi-tempi-immagineLa cara vecchia musica di una volta i genitori la rimpiangono e alcuni figli vorrebbero essere vissuti a quei tempi. Stiamo parlando del periodo’50-’60. Spesso basta avere una certa età per acquistare un’aura dorata che solo il tempo riesce a dare. Ma la musica commerciale anni ’50 e ’60, era davvero così valida rispetto a quella di oggi? Ciò che si rimprovera a molte canzoni odierne è la piattezza tecnica e la banalità dei testi. Il virtuosismo delle band viene visto come poco orecchiabile, così come un testo che stimoli pensieri e riflessioni viene visto come inadatto al grande pubblico. Il problema è che le canzoni dei tempi d’oro, con le dovute eccezioni, sono esattamente così: tecnicamente inesistenti e poeticamente imbarazzanti. Basti ascoltare due delle canzoni più famose di quegli anni, Diana di Paul Anka e persino Be My Baby delle Ronettes (un brano che secondo molti ha avuto un’influenza decisiva sul pop) per rendersene conto. Orecchiabili, piacevolissime da ascoltare, divertenti da canticchiare, ma cos’hanno di speciale rispetto alle loro colleghe di oggi? Inutile puntare il dito contro i soliti gruppi e cantanti che si prendono di mira in questi casi, per poi accusarli di veri e propri stupri ai danni della musica (pur senza dimenticare che i gusti del pubblico non devono giustificare l’esistenza prodotti di qualità scadente). Probabilmente quello che rende speciali le canzoni degli anni passati era il fattore socializzazione. La musica che si ascolta oggi nelle discoteche, quella che si balla, non è quella che va nelle radio e che si ascolta tutti i giorni. Il mito del ballo scolastico di fine anno, del juke-box, di Happy Days (anche se qui ci ritroviamo forzatamente a parlare di immagini molto americane), ormai non c’è più. È naturale che gli adulti critichino quello che ascoltano i giovani, così come noi criticheremo quello che ascolteranno i nostri figli. L’impressione però è che ci sia molta più apertura mentale da parte dei ragazzi, proprio coloro che secondo la cultura degli “oldies but goodies” sono cresciuti musicalmente assai male. Vi sono molti più giovani disposti ad ascoltare canzoni di un passato più o meno remoto (dall’hard-rock anni ’80, al rock psichedelico degli anni ’70, alla musica romantica degli anni ’60) che adulti disposti  a dare un’occasione alla musica di oggi. Appurato che questa è una questione solo marginalmente musicale, visto quanto la cultura e le influenze determinano i gusti di ognuno, c’è da chiedersi se anche le canzoni commerciali di oggi avranno la forza e la fortuna di elevarsi a pilastri di un passato da ricordare con tanta nostalgia e un sorriso sulle labbra. Ma questo lo scopriremo solo quando ci ritroveremo a gridare ai nostri figli di abbassare il volume dell’orribile musica che ascolteranno e a far loro una predica su come era bella quella di una volta. Chissà a quale dei tanti passati si riferirà il nostro “una volta”.

Tomas Mascali

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