Pubblicato il: 29 Dicembre, 2009

“Io sono nigeriana devo fare soltanto la puttana”

Bruna mi ospita a casa sua per un’intervista che si è rivelata gradevolmente lunga ed interessante: mi ha raccontato della sua esperienza di servizio civile presso l’associazione  Comunità Papa Giovanni XXIII, lavoro che l’ha tenuta molto impegnata dall’ottobre 2008 all’ottobre 2009. Bruna si è occupata del “recupero” di alcune ragazze rumene ma soprattutto nigeriane, che qui in Italia svolgono un mestiere tristemente noto: la prostituzione.

Bruna, come si è svolto il tuo lavoro? Parlaci di questa realtà poco conosciuta …

Ho svolto il servizio a Bologna, perché studio lì. All’inizio ero piena di entusiasmo e preda della “sindrome da crocerossina”. Avevo fatto la domanda al servizio civile proprio per  l’antitratta: l’ambito mi piaceva e interessava molto. Alla contentezza si associava anche la paura di relazionarmi con ragazze più grandi e con storie vissute particolarmente toste. Invece pian piano si è creato un rapporto con molte di loro e ho saputo far fronte ai miei compiti. Le mie mansioni non erano specifiche o ristrette ad un ambito ben preciso: il responsabile dell’associazione, Nicola Pirani, mi portava ad alcune riunioni ed io spesso mi occupavo di portare le ragazze all’Ufficio Immigrazione, alle visite mediche, a fare la spesa. Io ero un punto di mediazione tra l’aspetto burocratico e l’azione quotidiana. Una volta alla settimana mi recavo presso una delle strutture che ospitano queste ragazze e facevo lezioni di italiano, oppure le portavo in giro per la città. Le attività le inventavo personalmente, anche perché c’era il rischio che una volta tolte dalla strada, restassero tutto il giorno sul letto a non far niente. Loro, soprattutto le nigeriane, hanno una cultura profondamente diversa dalla nostra e non si sforzano minimamente di capire come funziona la nostra società e quindi di cercare lavoro o imparare la lingua. Perciò mi occupavo di intrattenerle in qualche modo e ogni settimana mi inventavo un’attività diversa. Il venerdì sera, con altri membri dell’associazione, ci recavamo in gruppo nelle zone in cui la prostituzione prospera e consegnavamo direttamente alle ragazze sulla strada il numero di telefono dell’associazione. Loro si scambiano molte informazioni e parlano moltissimo, cosi che arrivavano telefonate di alcune di loro al numero centrale dell’associazione (che è a Rimini), e da lì venivano poi smistate a tutte le altre città. Nicola Pirani chiamava me ed io andavo a qualsiasi ora alla stazione, dove mi aspettava la ragazza X che aveva chiesto aiuto. In base alla disponibilità delle strutture io dovevo portarla con me verso un letto ed un pasto caldo, o farmi coraggio e dirle di restar lì per mancanza di posti disponibili. Il progetto di recupero era in parte supportato finanziariamente dal Comune di Bologna e in parte da offerte e aiuti esterni ; inoltre alcune ragazze venivano aiutate e ospitate da famiglie e noi ci occupavamo di dar loro un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Passo successivo era la borsa lavoro, un modo per ottenere un impiego per queste ragazze, tramite l’aiuto di altri enti. Cosi ho capito che se la città non funziona in tutta la sua interezza e complessità, è inutile tentare di avviare simili progetti di recupero o di aiuto. Ci sono dei limiti oggettivi e reali: adesso, per esempio, molte ragazze sono senza lavoro e con la crisi che cresce non hanno molte possibilità di trovarlo; per di più il permesso di soggiorno per motivi umanitari ha una scadenza di sei mesi e può essere rinnovato per un massimo di tre volte. Quindi parliamo di energie, risorse, emozioni buttate al vento e tutto questo fa tanta rabbia. Io penso che ci sono tante persone che hanno buona volontà, ma è il contesto a non essere favorevole. L’associazione è un trampolino di lancio dalla strada all’autonomia, non può garantire più di quello che offre.  Infatti molte di loro diventano opportuniste e tentano altre strade per restare in Italia, per esempio il matrimonio con uomini italiani e quando questo accade per noi non è una vittoria, ma una sconfitta. Questo tipo di lavoro è molto pesante anche se enormemente gratificante quando anche una sola di queste ragazze trova un lavoro e una vita quasi normale; e non è una soddisfazione personale, ma qualcosa di più profondo, perché bisogna stare attenti, nessuno è dio sceso in terra, prima di tutto si deve sapere accettare la propria impotenza perché in tantissime occasioni mi sono resa conto (ed è stata dura) che non potevo far nulla per loro, salvo qualche piccolo aiuto materiale che non è niente in confronto a quello che hanno perso. Da una parte c’è la voglia di rivoluzionare le cose, dall’altra il muro dell’impotenza: un po’ per la società che non ti permette di fare tutto il possibile, un po’ per le stesse ragazze, che sono molto difficili e testarde.

Qual è il viaggio che le porta alla prostituzione?

Le storie cominciano sempre nel loro paese d’origine. Ci sono delle donne che fanno parte dell’organizzazione, che adescano le ragazze (soprattutto quelle più povere) dal parrucchiere o in altri luoghi di incontro e propongono loro un lavoro. Vi parlo delle storie delle ragazze nigeriane, non di quelle rumene, perché sono la maggioranza. Spesso la famiglia è coinvolta e fa degli accordi con l’organizzazione. Le nigeriane prima di partire fanno un rito voodoo che le lega indissolubilmente al loro destino: sono cristiane, ma il voodoo nonostante sia un rito di stregoneria, lo ritengono molto potente ed efficace. Le donne dunque partono e generalmente fanno una prima sosta in Marocco dove vengono raggruppate e soggiornano per un mese. In seguito tramite passaporti falsi e in modo del tutto illegale, raggiungono la Spagna e arrivano in Italia da Torino. Poi avviene lo smistamento: tutto questo è controllato quasi sempre dai nigeriani. Una volta giunte in Italia vengono scortate da un uomo che le consegna alla “Madama”, figura chiave nel giro della prostituzione: è una donna legata all’organizzazione e sottomessa ai magnacci e ai “capi”, ma ha facoltà di picchiare e disciplinare le ragazze sulla strada. È lei che consegna i preservativi, lei che prende i soldi, lei che controlla direttamente le ragazze. Devo anche sottolineare il fatto che coloro che offrono il lavoro qui in Italia a queste donne, dicono loro che per portarle fin qui devono investire su ognuna di loro settantacinquemila euro circa. Naturalmente è una menzogna notevole, ma le donne nigeriane non hanno idea dei costi di un viaggio, perciò devono scontare con il lavoro l’enorme cifra. Aggiungendo anche le minacce, la clandestinità, la paura, queste donne sono completamente asservite al sistema criminale che le controlla. Molte di loro cercano il nostro aiuto ma poi minacciate dalla Madama o dal protettore di turno, fuggono. Altre chiedono aiuti momentanei e contingenti, altre vogliono riscattarsi del tutto. Anche se loro dicono sempre: “ Che altro lavoro posso fare? Io sono nigeriana, devo fare soltanto la puttana”.

Parlaci delle loro storie …

Ho avuto tante ragazze di cui occuparmi e potrei raccontare tante storie, in generale ho fatto una distinzione tra nigeriane e rumene; per quanto possa sembrare strano il mio ragionamento, mi sono resa conto che i diversi tipi di cultura formano le differenze nelle popolazioni. Le rumene sono molto più fredde come persone, ma forse perché più vicine alla nostra cultura, riescono ad aprirsi pian piano e quindi a farsi aiutare; sono più coerenti e razionali. Le nigeriane invece, sono teste calde e del tutto irrazionali: parlano tanto e si lamentano, ma alla fine è molto difficile e pesante star dietro ai loro sbalzi d’umore, ma soprattutto alla loro testardaggine. Per loro il concetto di introspezione non esiste, sono molto più pragmatiche: non si fanno troppi scrupoli se devono abortire, e non è un ragionamento dettato dal mestiere cui sono costrette; anche in Africa, nella loro terra, pensano: “ questo bambino non posso tenerlo, non ho cibo da dargli, quindi … via.” Posso raccontarvi la storia di Nora, una ragazza nigeriana che dopo anni di fughe e violenze e pericoli di ogni genere, è giunta a Bologna due giorni prima che io iniziassi il mio servizio civile. L’ho seguita dal primo momento e la considero come una “figlia”. Mi sono occupata di tutte le pratiche per darle il permesso di soggiorno, e ancora non ha trovato lavoro. La storia di Nora è una di quelle storie che mi lasciano l’amaro in bocca. Purtroppo queste ragazze sono o diventano opportuniste e nel caso di quest’ultima, poco tempo fa ho avuto la notizia del suo matrimonio imminente con un italiano. Nora lo sposerà e poi si recherà in Africa, dove ha il suo promesso sposo e non tornerà in Italia senza un bimbo in pancia. Nora è consapevole di essere in una botte di ferro, perché anche se dovesse divorziare, il bambino nascerà in Italia e questo le permetterà (anche se con qualche difficoltà), di rimanere qui. Non condivido queste scelte, noi non lavoriamo per questo, cosi non ha senso sprecare energie e amore, anche se rifarei mille volte tutti i tentativi che ho fatto affinchè ogni storia potesse avere un lieto fine. C’è anche da dire che l’aiuto psicologico che potremmo offrire loro è relativo: l’approccio psicologico è più una fissazione occidentale, loro se ne fregano del proprio stato psicologico … purtroppo ci ritroviamo di fronte a persone che sono già state segnate. Quando qualcosa si rompe, nell’anima, non si sente più nulla e ci si abitua alle cose più aberranti trovandole quasi normali. Sono infatti ragazze completamente dissociate dalla realtà, piuttosto fuori di testa. E, come dicevo, il contesto culturale è un grande ostacolo per il dialogo: è come se parlassimo linguaggi diversi, infatti quando raccoglievo le storie di ognuna, mi rendevo conto che la diversità sta all’origine di queste brutte storie. Io non andrei mai con uno sconosciuto che mi propone un ipotetico lavoro in un paese lontano, loro si. È anche vero che le condizioni di povertà in cui vivono sono davvero lontane dalla nostra immaginazione, ma è anche vero che nel loro paese certe cose si sanno e non si sanno. Molto spesso le famiglie sono coinvolte e consapevoli del lavoro che le loro figlie andranno a fare in Italia. Purtroppo, questa piaga non cesserà mai di esistere, e non parlo della prostituzione in se stessa, ma della schiavizzazione. La schiavizzazione brutale di queste donne. Oggi, rispetto al passato le prostitute vengono trattate un po’ meglio, ma ciò non giustifica questo triste mercato. Molte di loro sono rassegnate ed assuefatte e mi fa paura perché è come se fosse normale essere una “puttana”. Purtroppo il lavoro che ho fatto è un po’ fine a se stesso: lo spirito con cui avevo iniziato è diverso da quello che ho adesso. Se dovessi parlarti oggi, ti direi che questo lavoro non voglio farlo per sempre. E’ davvero grande l’impotenza di fronte a questa realtà che anche se la gratificazione che ne viene è impagabile, resta sempre l’amaro in bocca.

Elena Minissale

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