Pubblicato il: 17 Luglio, 2009

Il Governo contro i restauratori di Beni Culturali

RestauriRestaurano beni di pregio storico e architettonico, sono laureati in Accademia o in Istituti d’Arte e vantano specializzazioni e competenze tecniche d’alto livello. I restauratori di beni culturali sono oltre ventimila. Sul loro lavoro si regge il patrimonio artistico nazionale, ma per la legislazione italiana non esistono. Nel nostro paese, non è riconosciuta simile figura professionale. Le aziende che, grazie alle loro competenze, si qualificano e si accreditano sul mercato, li assumono come semplici operai edili, e come tali li retribuiscono. Del resto, nessuna normativa prevede l’obbligo di dotarsi di uno specifico professionista, per il recupero di Chiese, monumenti e edifici storici. Sul comparto, si è appena abbattuto il DM n.53, cioè il regolamento sui requisiti per la partecipazione alla prova d’idoneità, utile all’acquisizione della qualifica di “restauratore” e di “collaboratore restauratore”.  Era un provvedimento atteso: doveva disciplinare lo svolgimento dell’esame e dare attuazione alle norme transitorie, contenute nell’art.182 del d.lgs. N.42 del 2004. Avrebbe dovuto porre la prima pietra di quell’edificio normativo, destinato a comporre il riconoscimento della figura professionale dei restauratori. L’acquisizione di quelle qualifiche sarebbe, infatti, solo il primo passo per la fuoriuscita da una condizione d’invisibilità, sotto- retribuzione e sottotutela. Il governo Berlusconi ha scelto, tuttavia, di porre una pietra tombale su qualsiasi prospettiva di regolamentazione del settore. Il DM n.53 introduce delle misure incongruenti rispetto all’art.182 della legge di riferimento: a rilasciare le certificazioni, necessarie alla richiesta d’idoneità, devono essere le aziende per cui sono stati realizzati i lavori, tramite attestazione di responsabilità diretta dell’operatore nella loro esecuzione. Peccato che in un settore così parcellizzato, nessun lavoratore ottenga documenti di questo tipo. Esistono migliaia di piccole imprese, e le loro attività si esauriscono, spesso, dalla messa in opera di un cantiere all’altra, dunque è forte il dumping contrattuale. I restauratori sono assunti in nero, o con le più disparate tipologie contrattuali: Co.Co.Pro., inquadramento degli edili o degli artigiani, e addirittura freelance, pur senza partita IVA. Le Soprintendenze che, dal canto loro, dovrebbero rilasciare “un certificato di regolare esecuzione dell’intervento”, hanno fatto sapere di non custodire alcun Albo e di non aver mai rilasciato certificazioni per lavori di restauro. Se qualcuno dubitasse degli intenti discriminatori del governo, basterebbe aggiungere che il decreto è retroattivo, cioè data al 2004 le prestazioni d’opera, utili al conseguimento delle qualifiche. Con quest’ultimo sigillo d’incostituzionalità, il ‘pacco’ è servito. Il Tar potrebbe cancellarne gli aspetti più mostruosi, ma il governo avrebbe comunque ottenuto di negare un futuro a migliaia di giovani. La loro colpa? Aver lavorato sodo, senza cercare ‘Santi in paradiso’.

Enrico Sciuto

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